INDICE
Per ricordare Michele Risso, Atti del convegno, Boves, 1 marzo 1996
(Luigi Pellegrino, Sergio Dalmasso, Agostino Pirella,
Franca Ongaro Basaglia, Pietro Ingrao, Gianna Tangolo, Regina Chiecchio)
Interventi
Farfalle, uomini e topi. Cioè: a ciascuno il suo farmaco, naturalmente (Michele Risso)
Appendice 2 (Michele Risso, Wolfgang Böker)
Intervento sugli operatori psichiatrici (Michele Risso)
Cronicità e cronificazione (Michele Risso e Paolo Repetti)
Maria Luisa Spaziani (da I fasti dell'Ortica, Arnoldo
Mondadori Editore, Milano, 1996)
LA LEGGE 180
A Franco Basaglia e a Michele Risso
Nulla lasciò della sua scialba vita
la cugina Maria, per trent'anni
chiusa a Torino al buio dei "Due Pini".
Restano quattro lettere. Ritrovo
due versi che le invidio, involontari
grandiosi endecasillabi (per sempre
nostro rimorso e pianto):
"Il sonnifero no, mi offusca i sogni".
"Io grido, grido, e qui se ne riposano".
Luigi Pellegrino (Sindaco
di Boves)
Ricordiamo con queste pagine un illustre concittadino bovesa-no, Michele
Risso; è ancora piú significativo richiamarne la me-moria, perché
nella professione che ha caratterizzato la sua vita ha rivolto costante attenzione
ad un impegno di riflessione e di aiuto per la sofferenza, per quelle difficoltà
sottili, misteriose, sovente pesanti che riguardano la nostra psiche.
In questa rievocazione di Michele Risso, a quindici anni dalla morte, è
naturale ricordarlo come cittadino bovesano, emotiva-mente legato a questa
nostra terra, partito, come altri suoi com-paesani, quando Boves non era ancora
città - verso mete che lo hanno condotto lontano, ma sempre legato
alla sua terra, i cui ca-ratteri di concretezza mantenne come medico e ricercatore.
L'originalità, ovvero sano senso di distinguersi, è certamente
una caratteristica che viene riconosciuta ai Bovesani - certa-mente Michele
Risso incarnava questmunò all'intraprendenza, al carattere anticonformista
e alle idee antimili-tariste (cosí provocatorie e provocatrici in quegli
anni) e allo spiri-to di avventura, già forte finisi recòcanza
al Nord, in Svezia con due suoi amici.
Sceglierà poi la professione di medico psichiatra, che lo porte-rà
a schierarsi con quel forte movimento nazionale grazie al quale si avvierà
la riforma delle strutture e dei metodi di cura della malattia mentale, capovolgendo
totalmente la filosofia e le teorie che sottostavano a tutto quel sistema
orientato non a curare ma a segregare, isolare, mettere da parte.
Risso rimase sempre legato a questo suo luogo natale, vi tor-nava volentieri
per ricordare con i suoi compagni di allora le parti-te al pallone e le chiacchierate
tra amici.
Sfogliando queste pagine viene fuori chiara la sua vivace intelligenza con
il suo desiderio di conoscere e di sapere: sia questo un augurio perché
queste pagine, al di là del ricordo, invoglino a riflessioni sulle
sue scelte e sui temi ancora cosí attuali che carat-terizzarono la
sua attività.
Un ringraziamento particolare vada ai relatori che lo hanno vo-luto ricordare
ed ai suoi familiari che la sera dell'incontro, il 1° marzo 1996, sono
stati con noi a Boves.
Sergio Dalmasso
PSICOANALISI E POLITICA. LIBERAZIONE INDIVIDUALE E SOCIALE
Il CIPEC (centro di iniziativa politica e culturale) ha svolto, per anni,
attività in Cuneo, lavorando su alcuni filoni centrali.
1) la riscoperta di un marxismo critico contro quello dogmatico e chiesastico,
con il recupero di figure e tematiche per troppo tempo cancellate. Di qui
la necessità di non negare aprioristicamente la "crisi del marxismo"
su cui tanto si è discusso negli anni '80, ma di recuperare in esso
elementi che ne permettessero un rilancio nella inevitabile critica alle esperienze
realizzate e nella riproposizione di personalità sconfitte e di dibattiti
"rimossi". Per questo abbiamo organizzato:
a) un primo ciclo di incontri su Marx e il marxismo;
b) un secondo ciclo, piú articolato, "Marxismo e..." nel
tenta-tivo di coniugare il pensiero di Marx e la storia del movimento operaio
con le emergenze e i grandi temi del mondo di oggi (il femminismo, l'ambientalismo,
l'economia, la religione, la nonviolenza, la psicoanalisi, la libertà).
c) un terzo ciclo piú breve "Marxismo oggi", in una fase
in cui il dibattito teorico coincideva anche con snodi politici centrali per
la fisionomia della sinistra in Italia.
2) la riflessione sulla storia del movimento operaio del sociali-smo e del
comunismo in Italia e nel mondo. Il ciclo "Le rivoluzioni del '900",
quasi coincidente con il crollo dei regimi dell'est è inizia-to con
una riflessione, "fuori tema" solo cronologicamente, sul bi-centenario
della rivoluzione francese, ha toccato la piú parte dei fenomeni rivoluzionari
del secolo, tentando una riflessione storico-politica anche sulle cause del
loro esaurimento.
3) l'analisi sul fenomeno della mondializzazione, nel tentativo di offrire
elementi per superare il provincialismo e l'eurocentrismo di cui continua
a soffrire la sinistra italiana. Il ciclo "500 anni bastano", nel
mezzo delle celebrazioni ufficiali e retoriche sul cin-quecentesimo anniversario
della scoperta dell'America (noi abbiamo usato il termine conquista) è
servito a presentare il punto di vista dei popoli colonizzati, ma anche a
riflettere sul rapporto tra paesi ricchi e poveri (centro e periferia), sulla
Chiesa in America latina, sul debito e sui meccanismi economici internazionali,
sulla tematica ambientale.
4) la pubblicazione dei quaderni "Storia, cultura, politica" che
hanno il fine di presentare momenti della storia delle formazioni politiche
o sindacali della provincia e di far conoscere figure della sinistra (dall'antifascismo
alla guerra partigiana, al dopoguerra alle vicende dei partiti locali, alla
stagione dei movimenti...) spesso sconosciute o dimenticate.
Tra gli ospiti del circolo impossibile non ricordare Ludovico Geymonat e Mario
Spinella, poi scomparsi, altre grandi figure della cultura italiana, un'india
di nazionalità mapuche che ci ha fatto conoscere la storia e la situazione
del suo popolo.
Perché, allora, da parte del CIPEC, l'interesse che potrebbe sembrare
un po' contraddittorio rispetto al campo di lavoro e di impegno, per la psicoanalisi,
per le tematiche sollevate da grandi figure come Franco Basaglia e Michele
Risso? Perché un circolo politico culturale ha dedicato due anni del
suo lavoro a cicli su "Storia della psicoanalisi" e "Analisi
e terapie"?
Innanzi tutto, è sempre piú crescente anche fra i non "addetti
ai lavori", un interesse per temi e pubblicazioni di psicologia, psi-coanalisi,
psichiatria, che rischia di trasformarle in oggetto di con-sumo, con un singolare
(frutto del diverso clima politico) passaggio dalla contestazione antipsichiatrica
(Cooper, Laing...) alla psi-chiatria tecnica, piú capace di offrire
certezze e "risultati terapeutici".
In secondo luogo, forme di terapia "selvaggia" o mode che nascono
dal disagio sempre piú profondo indotto dal nostro modello sociale
sembrano cancellare gli aspetti piú innovativi e radicali del pensiero
e dell'opera di Freud, Reich e di altri grandi teorici.
Infine, un circolo che abbia come centro il marxismo critico e accetti sino
in fondo la necessità di assumere la "crisi del marxi-smo"
stesso in tutte le versioni in cui è espresso sino ad oggi, non può
non porsi il compito di indagare il rapporto fra il comunismo come progetto
di liberazione collettiva ed ipotesi di analisi e di "liberazione individuale",
in cui il malessere personale sia letto (anche se non esclusivamente e meccanicamente)
come prodotto dei rapporti sociali e in cui si analizzi come l'oppressione
socia-le si rifletta nella vita delle persone.
In questo campo, scontiamo ritardi, incomprensioni e deforma-zioni e del pensiero
di Marx e della natura radicale e rivoluzionaria della psicoanalisi. Non a
caso la psicologia sociale - che Giovanni Jervis nel suo "Manuale critico
di psichiatria" chiama psicologia politica - è ferma all'opera
di Reich o alla scuola di Francoforte, non a caso in tutta la sinistra italiana
vi è stata per decenni una totale incomprensione della valenza della
psicoanalisi (anche in Togliatti, pure molto attento alla "battaglia
delle ide-e", vi è una grave sordità verso Freud, come
verso l'esistenzialismo). In realtà, il pensiero di Freud nella sua
versione originale, è profondamente rivoluzionario, segna una rottura
fron-tale con la società borghese nel suo complesso (non solo con quella
del suo tempo) e non ha nulla da spartire con le versioni edulcorate che ne
sono state offerte. È stata questa radicalità a causare le critiche
frontali della Chiesa, del marxismo dogmatico, di molti settori del movimento
studentesco che hanno accusato di astoricismo la psicoanalisi, del femminismo
che non ha saputo superare le accuse di maschilismo a Freud. È stata
questa radicalità a provocare luoghi comuni, pregiudizi, incomprensioni
che compaiono spesso anche nella pubblicistica politica.
Già dopo i primi anni, il pensiero di Freud ha subito un ricono-scimento
e un irrigidimento che ne hanno privilegiato gli aspetti tecnici, emarginando
o cancellando le valenze politiche di critica alla società attuale
e di profonda preoccupazione verso le stesse sorti dell'umanità , particolarmente
presenti nelle ultime opere, in cui, se le dinamiche complessive della società
sembrano soggette ad un pesante determinismo, il cambiamento di atteggiamenti
psicologici individuali è finalizzato anche alla trasformazione della
realtà nel suo complesso.
La frattura tra aspetto personale e sociale sembra, quindi, ormai radicata
e irreversibile, come la medicalizzazione della psico-analisi. Solo negli
anni '60 e nei primi anni '70, la frattura pare sanabile e sembra che un pensiero
critico possa nascere dalla sin-tesi fra la radicalità del marxismo
rivoluzionario e quella della psicologia sociale.
L'assunzione dell'opera di Freud e Reich, bloccata dal nazismo e dalla restaurazione
post bellica, la lettura degli autori della scuola di Francoforte, il clima
culturale indotto dalla protesta stu-dentesca e dalla realtà internazionale
creano, per un breve periodo, le condizioni che sembrano rendere possibile
una sintesi Marx-Freud, pensatori che hanno svelato le condizioni oggettive
e soggettive della vita, e la nascita di movimenti culturali e politici che,
ricollegandosi alla temperie degli anni '20 e '30, si pongano come fine la
reale liberazione dell'uomo da tutte le costrizioni "personali e politiche".
L'intreccio tra Marx e Freud, cosí come quello tra il "personale
e il politico", slogan del movimento del '77 , produce, per una breve
stagione, studi, opere e tentativi di lavoro pratico che sembrano richiamarsi
al Reich degli anni '20 e '30, alla sua emargina-zione dai movimenti comunista
e freudiano ufficiali. Il "connubio contro natura" è di breve
durata; la fusione fra i due momenti resta una ipotesi non praticata. Trasformazione
sociale e analisi dell'inconscio e dei comportamenti soggettivi tornano ad
essere sempre maggiormente separati. La ricerca dei sedimenti di rapporti
sociali oppressivi nella psiche dell'individuo è progressiva-mente
cancellata dalla stessa pratica terapeutica e dal modificarsi dell'attenzione
o verso il pensiero orientale o verso pratiche non analitiche, non a caso
provenienti dalla cultura americana. Sintomatico il maggior interesse per
Jung che sembra maggiormente venire incontro a bisogni o interessi di massa
(il mito... ).
Lo stesso pensiero di Reich sembra ridursi piú ad una tecnica terapeutica
che ad una radicale critica dei rapporti sociali e di potere della società.
Non a caso le varie scuole reichiane hanno totalmente abbandonato ogni valenza
politica, propria del Reich, comunista eretico, della Sexpol .
L'interesse per la critica alla psichiatria istituzionale, per il movimento
di Psichiatria democratica, per grandi figure come quelle di Franco Basaglia
e Michele Risso è, quindi, consequenziale ai motivi generali che ho
ricordato.
Inoltre non possiamo non ricordare
- che a Cuneo ha operato, nella prima metà degli anni '70, l'"Associazione
per la tutela dei malati di mente", piú nota nelle dispute ideologiche
del tempo come "Associazione per la lotta contro le malattie mentali",
volta ad un intervento soprattutto, ma non solo, verso l'ospedale psichiatrico
di Racconigi.
- che Michele Risso è tra i pochi bovesani ad avere assunto un ruolo
ed una notorietà a livello nazionale ed internazionale e che, purtroppo,
localmente è quasi dimenticato o, comunque, scarsamente conosciuto.
- che l'importanza di Risso è enorme sia nella storia del movimento
di Psichiatria democratica , in cui, essendo analista, svolge un ruolo specifico,
sia nella continuazione dell'opera di Erne-sto De Martino allacciando gli
studi di questi, che dall'antropologia si apriva a tematiche psichiatriche,
ai propri interessi specifici e soprattutto al tema dello sradicamento degli
emigrati italiani, della nostalgia come malattia e della conseguente interdipendenza
tra emigrazione e malattia mentale.
Per questi motivi e in base a queste considerazioni, il CIPEC ha proposto
a Cuneo due cicli su psicoanalisi e psicoterapie e a Boves un doveroso ricordo
di una figura la cui attualità si inizia forse solo oggi a cogliere.
Agostino Pirella
MICHELE RISSO: L'ANGOSCIA COME LA COLECISTI?
Nel ricordare Michele Risso due registri si confondono e rendono difficile
il discorso. Quello degli affetti, della memoria degli incontri e dell'amicizia,
e quello della partecipazione comune all'impresa della trasformazione della
psichiatria con Franco Basa-glia, a partire dall'esperienza di Gorizia.
Dovrò al lettore non specialista qualche chiarimento su questa impresa
che sbrigativamente è stata chiamata "superamento" dei manicomi,
sancito dalla legge 180 del 1978, ma intanto mi lascio prendere dal fluire
dei ricordi e soprattutto dalla tonalità emotiva di essi, che si esprimeva
sia nel nostro rapporto personale, sia nella partecipazione all'impresa collettiva,
scientifica, culturale e "politica" in senso lato, iniziata negli
anni '60 e portata avanti con "psichiatria democratica" senza interruzioni,
con grande intelli-genza e passione fino alla fine prematura e crudele, a
pochi mesi di distanza dalla scomparsa di Franco Basaglia.
Ci furono le prime prove in convegni in cui una pattuglia di psi-chiatri giovani
e innovatori riferiva, a partire dalla propria esperienza, sul mondo nuovo
che si apriva, il mondo della comunicazione e dell'aiuto, dentro il luogo
dell'orrore e della miseria fino a quel momento celato e mistificato come
luogo di scienza e di cura.
E poi incontri di lavoro sui rapporti tra psicoterapia, psicoanalisi e critica
all'impostazione classica della psichiatria istituzionale, ma anche incontri
piú personali in cui Michele, poco piú anziano di me, assumeva
volentieri un ruolo di aiuto fraterno, di consigliere anche per le ansie della
vita quotidiana.
Ricordo quando, nel 1967 fui a Roma per qualche giorno per l'esame di docenza
in psichiatria. Avevo altri amici romani, ma singolarmente gli incontri con
Michele restano nella memoria come i piú belli, i soli che non fossero
inquinati da diplomazie e convenevoli futili. La docenza, che Basaglia mi
aveva quasi costretto a conseguire come titolo utile per la nostra battaglia,
assumeva ai nostri occhi la funzione di un bersaglio comune, che comportava
significati collettivi, validi per il futuro. Tuttavia non c'era in quegli
incontri romani il senso della cospirazione o dell'intrigo minoritario, bensí
una certa consapevolezza di essere parte di un lavoro che apriva al futuro,
che preparava un cambiamento, anzi, che era dentro il cambiamento.
Michele era stato come costretto, dalle condizioni penose della psichiatria
italiana di allora, ad emigrare: "espatriato per lavorare nella clinica
psichiatrica di Berna nella seconda metà degli anni cinquanta, durante
il suo soggiorno nella Confederazione aveva dedicato molto della sua attività
ai lavoratori italiani"1. Aveva cosí iniziato il suo personalissimo
viaggio critico nella psichiatria a par-tire da una condizione di rischio
di cui aveva nozione diretta. È di quegli anni una ricerca sugli oltre
700 italiani emigrati ricoverati negli ospedali psichiatrici della Svizzera
tedesca tra il 1946 e il 1960. Successivamente studiò e pubblicò,
assieme a W. Boeker, un saggio rimasto classico, sul Verhexungswahn (delirio
di male-ficio, di "stregamento") in pazienti italiani emigrati in
Svizzera2.
In esso si manifestava non solo l'interesse per la condizione degli emigrati,
intrisa di insicurezza e di miseria, ma iniziava a costruirsi un abbozzo di
critica della psichiatria che l'incontro con l'esperienza basagliana avrebbe
permesso di sviluppare.
Franco Basaglia è abbastanza noto per doverne parlare a lun-go (anche
se un professore universitario di Padova ha riferito qualche tempo fa che
il duplice oblio, degli studiosi e dei mass media, ha fatto sí che
tra i suoi studenti, all'inizio del corso, il no-me di Basaglia non era conosciuto
o veniva ricordato da qualcuno come "quello del politico che aveva fatto
approvare la legge che ha chiuso i manicomi"). Forse sarà dunque
utile rilevare che Basaglia - di qualche anno piú anziano di Risso
- da docente all'Università di Padova, ancora giovane, scelse di andare
a dirigere un ospedale psichiatrico periferico, quello di Gorizia, e di raccogliere
attorno a sé un gruppo di psichiatri che avessero sia le qualità
che l'indispensabile fermezza critica per portare a compimento una trasformazione
dello stile di intervento della psichia-tria.
È quello che è accaduto a partire dai primi anni '60, prima
a Gorizia e poi in altre province, in un contesto scientifico, culturale,
sociale e politico che in tutti i paesi industriali avanzati ha condizionato
questa trasformazione.
Michele Risso, tornato in Italia per svolgere la sua funzione di psicoanalista
e di psicoterapeuta delle forme piú gravi di disturbo psichico, le
psicosi, incontrò Basaglia ed il suo gruppo e partecipò fin
dall'inizio al lavoro teorico-pratico di elaborazione sia della critica della
psichiatria che della costruzione di modalità alternati-ve di approccio.
Sono dello stesso anno, 1967, due contributi importanti da cui partire per
ricostruire l'itinerario importante della storia professio-nale e umana di
Michele Risso. Il primo, espressione di tutto il gruppo, rappresentò
la risposta critica, preparata per un Convegno scientifico, alle proposte
di semplice "aggiornamento" della situazione manicomiale3. Fu un
momento significativo, cui Risso diede il suo contributo fattivo, anche se
non figura ufficialmente come coautore, di verifica delle possibili astuzie
del potere psi-chiatrico (come già stava accadendo in Francia) e cioé
quello di assorbire dentro le regole dell'istituzione repressiva, appena un
poco addolcite, le procedure dell'innovazione, irrigidendole in tecniche apparentemente
neutrali. Non a caso Basaglia scelse come epigrafe della relazione una striscia
di un fumetto, credo ancora oggi famoso, del prigioniero di "Wiz il mago",
di J. Hart e B. Par-ker. Entra il guardiano ed annuncia sorridendo: "Allegri
è l'ora della terapia d'occupazione! Potete mettervi a fare cesti,
lavori in cuoio, collane o mosaici". "Non scegliere i mosaici!"
suggerisce a questo punto il prigioniero piú esperto al novellino.
"Perché ?" - domanda questi - "I pezzi bianchi te li
fanno fare coi denti" è la risposta.
L'altro contributo, a firma del solo Michele Risso, è tuttavia parte
del primo lavoro collettivo in volume del gruppo di Gorizia con il titolo
significativo di Che cos'è la psichiatria? Pubblicato inizialmente
nel 1967 a cura dell'associazione lotta contro le malattie mentali e dell'amministrazione
provinciale di Parma - che per impulso di quell'uomo straordinario che era
e resta Mario Tom-masini aveva organizzato incontri tra gli operatori dei
due ospedali di Parma e Gorizia - fu poi ripubblicato da Einaudi nel 1973.
L'attualità di questo scritto è impressionante. Con le sue competenze
specifiche di psicoanalista interessato alla psicoterapia degli psicotici
(ed è noto che spesso gli psicoanalisti prediligono "curare"
i sani o i "quasi-sani") Risso, sulla linea che il gruppo stava
elaborando, si esprime con estrema chiarezza: "purtroppo si deve dire
che la psicoterapia, pur avendo un profondo e rivoluzionario significato per
quanto riguarda il futuro della psichiatria, non è riuscita nel suo
intento clinico. Questa nuova corrente, nell'ambito delle cliniche psichiatriche,
si è inserita ed allineata accanto alle altre terapie […] anziché
prendere una posizione di contestazione, tendente a mettere in crisi il significato
della istitu-zione e delle terapie in essa praticate". E poco oltre:
"La psicoterapia, entrata nell'ospedale psichiatrico con il significato
di una rivoluzione totale di questa istituzione anacronistica, ne è
uscita per tornare nello studio degli psicoanalisti o entrare nelle cli-niche
private". L'incompatibilità tra approccio psicoterapeutico ed
istituzione repressiva era infatti già stata denunciata - come fa notare
Risso - da Rosen che considera l'ospedale psichiatrico come un ambiente dannoso
per lo schizofrenico e da Sullivan che vede questa istituzione come "diabolicamente
organizzata per rendere il malato incurabile".
Queste affermazioni - citate da Risso - non sono di questi anni, anzi, sono
dei decenni precedenti la 2ª guerra mondiale, e lasciano intravedere
gli sviluppi che attraverso l'approccio psico-terapeutico e quello fenomenologico-esistenziale,
la critica della psichiatria è riuscita a raggiungere.
Si è trattato di un lungo e difficile cammino di avvicinamento a modalità
di approccio al paziente che presenta disturbi che definiamo come psicotici
(e dunque storicamente valutati come in-comprensibili, assurdi, spesso irrecuperabili,
avviati cioé alla cro-nicità) che consentono di iniziare un
dialogo ed un progetto co-mune, un possibile iniziale chiarimento della situazione
a partire dalle condizioni date, che devono fare i conti con lo stile repressi-vo
e spesso punitivo e torturatore che le "terapie" psichiatriche hanno
assunto. E queste vengono subito denunciate da Risso: dalla lobotomia, per
la quale l'inventore, il portoghese Moniz fu insignito del premio Nobel nel
1949, ai trattamenti di shock, ai trattamenti farmacologici potentemente sedativi.
L'attualità di considerazioni di trent'anni fa è dimostrata
oggi dal ritorno dell'enfasi su gran parte di questi trattamenti, supportati
dall'iniziativa massiccia delle case farmaceutiche e dalla supervalutazione
del momento nosografico come scientificamente fondato. Si sa infatti che in
medicina un'esatta diagnosi è la premessa per una corretta terapia,
e che la prima è sempre piú dipendente da metodi tecnologici
via via piú sofisticati di accertamento. In psichiatria ciò
non si dimostra vero in moltissime circostanze (fanno eccezione alcuni quadri
sintomatologici a etiologia tossica) ed emerge come rilevante la storia del
paziente, assieme al contesto con le sue caratteristiche di supporto o di
generatore di conflitti.
Anzi, come scrive lo stesso Risso, la psichiatria deve sempre piú accostare
l'angoscia del paziente non come fosse il disturbo della colecisti.
Negli anni successivi, con il rafforzamento delle esperienze alternative (che
non si riferivano alla semplice "umanizzazione" de-gli ospedali
psichiatrici ma cercavano di costruire nuovi modi di approccio alla malattia
mentale) diffuse ormai a molte sedi, si re-se necessario organizzare un movimento
nazionale capace di rappresentare l'esigenza del cambiamento, anche a nome
dei pazienti stessi - che si cominciarono a chiamare, con un neologismo azzeccato,
"psichiatrizzati" -. E fu, a partire dal 1974, "Psichiatria
Democratica": Michele Risso, da Roma, fu un protagonista del collegamento.
Senza finanziamenti che non derivassero dalle nostre tasche, il movimento
divenne pian piano organizzazione, fino a rappresentare, per il varo della
legge 180 del 1978 un valido punto di riferimento a disposizione del parlamento.
E vorrei ricordare a questo proposito, l'inesattezza della denominazione "legge
Basaglia" a proposito della legge che abolisce i manicomi. Certo, ci
può e ci deve essere il riconoscimento al lavoro di trasformazione,
difficile, sempre minacciato da poteri conservatori di ogni risma, di Basaglia
e del suo gruppo, senza il quale non si sarebbe potuti arrivare ad una legge
cosí avanzata. Tuttavia si tratta pur sempre di una legge elaborata
dai parlamen-tari, con un dettato che solo in alcune parti rispecchia adeguatamente
i punti di vista di psichiatria democratica.
Intanto a Roma Risso aveva aperto uno studio in cui i diagno-sticati come
psicotici o "schizofrenici" potevano avere un trattamento psicoterapeutico,
cioé un rapporto esperto e solidale. Molti studenti e alcuni giovani
medici e psicologi si accorsero di ciò e si accostarono a Psichiatria
Democratica per questa via.
La sua impostazione era estremamente flessibile, non restando legata al solo
rapporto verbale codificato dalle regole psicoanalitiche, ma costruendo il
rapporto come aiuto, senza tentazioni invasive e con una libertà reciproca
massima. Poco ci resta delle riflessioni di quel periodo. Assieme a Repetti
pubblicò su Sapere nel 1981 un testo su "Cronicità e cronificazione"
in cui vengono precisate le condizioni che "producono" aggravamento,
aumento di difficoltà, e quelle condizioni che, al contrario, debbono
essere ricercate e favorite perché rafforzano le tendenze al miglioramento.
Viene in questo modo costruito un altro punto fermo nei con-fronti di una
psichiatria che, non mettendosi in discussione, postula gli esiti in "cronicità"
come fatali. La "cronificazione", invece risulta un "prodotto"
sia di un approccio nosografico creatore di stigma che del trattamento troppo
centrato sulla medicalizzazione od anche su un modello psicoterapeutico distanziante.
In alcuni seminari tenuti ad Arezzo (città nella quale negli anni 70
ero responsabile dell'esperienza psichiatrica) questa impostazione veniva
confortata dalla pratica quotidiana, in cui un altro psicoanalista alternativo,
Paolo Tranchina, era ugualmente impegnato. Mi resta scarsamente comprensibile
il fatto che nel nostro Paese, centro della piú organica esperienza
collettiva di cambia-mento della pratica e della teoria della psichiatria,
ed in cui la critica della psicoterapia non si accompagnava alla sua ripulsa,
la grande maggioranza degli psicoanalisti si siano estraniati da questo impegno
di trasformazione o abbiano utilizzato il proprio ad-destramento analitico
per una piccola e meschina attribuzione di superiorità professionale.
Grande il merito di Michele Risso, dunque. Egli non si è aggregato
a nessun carro vincente, combattendo la sua battaglia con una tranquillità
che forse, proprio per contrasto, si contrapponeva alla tempestosità
di Franco ed alla mia umoralità un po' alterna. Ed ha sofferto, come
tutti noi, il congedo dalla vita e dalla lotta di Franco, sopravvivendogli
per poco, anche lui stroncato ancora in un'età nella quale ci si appresta
ai riconoscimenti.
Vorrei concludere questo forse troppo breve ricordo, in cui ho tralasciato
le coordinate molteplici del suo ingegno e della sua cu-riosità (la
ricerca antropologica, quella storica sul "male della nostalgia",
i contributi su varie riviste...) con un'altra occasione in cui Michele, con
la sua autorevolezza, accorse in mio aiuto.
Il quotidiano La Repubblica, subito dopo la morte di Franco Basaglia, aprí,
forse per lo stimolo di una redattrice ostile e, mi si lasci dire, un po'
ottusa, una discussione sulla psichiatria, sulla legge 180 e su Basaglia,
dall'incredibile titolo "Processo a Basa-glia". Fui intervistato
in quella occasione (non conoscevo ancora il titolo sotto cui sarebbe stata
accolta l'intervista) ed affermai che non si era trattato di un mutamento
solo politico o sociale o cultu-rale, ma anche di un vero e proprio mutamento
scientifico: la critica della psichiatria come pseudoscienza, costruita nella
pratica della trasformazione, corrispondeva ad un avanzamento scientifico,
ad un progresso delle conoscenze su ciò che chiamiamo ma-lattia mentale.
Passò qualche giorno e la pagina del quotidiano fu invasa da un'intervista
incredibile al direttore dell'ospedale psichiatrico di Gorizia, sostenitore
di una psichiatria conservatrice e da un articolo di un universitario che
banalizzava la scientificità delle impostazioni di Basaglia.
Senza indugio Michele Risso scrisse uno dei migliori contributi possibili
sull'eredità di Franco Basaglia. Spiegò perché si trattava
di scienza - e non solo di politica - e difese le mie argomentazioni. Spero
che possa, in qualche modo, essere ripubblicato.
Franca Ongaro Basaglia
MICHELE RISSO: IL RINNOVAMENTO DELLA PSICHIATRIA
Nel ricordare Michele Risso non posso non premettere ad ogni discorso sul
suo legame con il movimento di rinnovamento della psichiatria, che si è
trattato di un rapporto di amicizia profonda, di affetto fraterno e di lavoro
comune - pur nella diversità delle pratiche - fra persone che, nella
battaglia per un rinnovamento culturale, si sono incontrate, riconosciute
e molto amate.
Nei primi anni dell'esperienza goriziana (il primo O.P. in cui si lavorava
dal '61 all'apertura e al superamento del manicomio), al loro primo incontro
a Roma, mi pare nel '65, Franco - alla ricerca di collaboratori competenti
e motivati al lavoro di cambiamento che aveva avviato - sperava molto in un
trasferimento di Michele a Gorizia. E Michele ne fu tentato, ma, da poco rientrato
in Italia dalla Svizzera, aveva già avviato il suo lavoro di psicoterapeuta
a Roma e non era semplice ributtarsi in un'altra avventura, ritraslocando
con la famiglia. Con nostro grande rammarico - perché anch'io fui subito
legata a Michele da grande stima e affetto - non partecipò direttamente
all'impresa ma ne fu sempre parte integrante e importante, come psichiatra
e psicoterapeuta impegnato nella critica dei modelli tradizionali, sia della
psichiatria che della branca di sua competenza, la psicoterapia.
Parte della storia di Michele Risso, eccezionale psicoterapeuta, è
dunque anche storia di questo importante processo di cambiamento e ricordare
Michele è anche un modo di ricostruire punti importanti di questo processo.
Oltre alle infinite discussioni con Franco e con il gruppo di lavoro, Michele
partecipò nel '67 alla prima pubblicazione collettiva "Che cos'è
la psichiatria?", primo messaggio sul lavoro anti-istituzionale goriziano,
in cui si sosteneva la necessità di superare l'istituzione manicomiale,
ma anche la psichiatria tradizionale co-me istituzione e il farsi istituzione
dei rapporti di potere sui soggetti.
Nel suo articolo "Una psicoterapia istituzionale" poneva un elemento
critico sulla destorificazione, attuata dalla psichiatria organicistica, sia
del malato che della malattia; sull'impossibilità di attuare qualunque
tipo di rapporto terapeutico nell'ambito di strutture manicomiali. "La
psicoterapia - sosteneva - è entrata nell'ospedale psichiatrico con
il significato di una rivoluzione totale di questa istituzione anacronistica,
ne è uscita per tornare nello studio degli psicoanalisti e entrare
nelle cliniche private". E piú oltre: "La psicoterapia può
essere realizzata esclusivamente in un ambiente che sia, di per sé,
psicoterapico".
Esattamente in questa direzione si muoveva, in quegli anni, l'esperienza goriziana,
alla ricerca di una terapeuticità che doveva essere espressa da tutti
i componenti l'istituzione a tutti i livelli: malati, medici, infermieri,
volontari e visitatori.
Nel '74 Michele fa parte del gruppo dei fondatori di P.D.. Non mi sembra fuori
luogo ricordare, anche a noi stessi, che nel documento programmatico si sosteneva
fra l'altro:
Compito dell'operatore psichiatrico è dunque riportare alla propria
specificità un'istituzione e un rapporto che - sotto l'alibi di codificazioni
scientifiche diverse - prevedono invece solo la genericità del controllo.
...
Per gli operatori ciò significa:
1) L'individuazione e la lotta contro il proprio ruolo di potere nei confronti
dell'utente del servizio.
2) L'individuazione nella persona di bisogni sociali non soddisfatti, che
l'internamento cancella, occultandoli sotto la diagnosi di malattia.
3) L'individuazione degli strumenti terapeutici impliciti nel proprio ruolo
specifico, una volta liberato dalla strumentalizzazione che il sistema sociale
attua attraverso la delega del controllo e del potere.
4) L'individuazione e il riconoscimento delle persone e delle forze sociali
coinvolte e da coinvolgere in questa lot-ta.
In questa ottica, il tecnico deve offrire una pratica che serva di verifica
a istanze politiche, non solo sanitarie e tanto meno solo psichiatriche (...).
Il gruppo di psichiatria democratica si propone quindi di:
1) Continuare la lotta all'esclusione, analizzandone e denunciandone le matrici
negli aspetti strutturali (rapporti sociali di produzione) e sovrastrutturali
(norme e valori) della nostra società. Questa lotta può essere
condotta solo collegandosi con tutte le forze e i movimenti che, condividendo
tale analisi, agiscono concretamente per la trasformazione di questo assetto
sociale.
2) Continuare la lotta al "manicomio", come luogo dove l'esclusione
trova la sua espressione paradigmatica piú evidente e violenta, rappresentando
insieme la garanzia di concretezza al riprodursi dei meccanismi di emarginazione
sociale. Anche se questa spesso passa per una lotta di retroguardia, gli ospedali
psichiatrici esistono infatti, in tutto il paese e, tranne rari casi in cui
operatori psichiatrici o amministrazioni provinciali stanno tentando un'opera
di trasformazione, per la maggioranza la situazione è immobile e immodificata.
3) Sottolineare i pericoli del riprodursi dei meccanismi istituzionali escludenti,
anche nelle strutture psichiatriche extra-manicomiali di qualunque tipo. Qualsiasi
struttura alternativa si configura infatti a immagine e somiglianza dell'organizzazione
istituzionale che continua ad esistere in modo dominante alle sue spalle.
4) Rendere praticamente esplicito il legame fra l'azione in campo specifico
psichiatrico e il problema piú generale dell'assistenza medica, rivendicando
- al di là della divi-sione del lavoro e delle competenze - un'azione
unitaria che dalla lotta specifica per la promozione della salute mentale
ci coinvolga nella piú ampia battaglia per l'attuazione di una concreta
e necessaria riforma sanitaria che si fondi su una nuova logica sociale. È
l'esigenza di questa nuova logica sociale che deve impegnare il gruppo a collegarsi
con tutte le forze che perseguono concreta-mente il medesimo scopo.
Sono stati dunque questa apertura e questo legame con le forze politiche e
sociali interessate al cambiamento, ad allargare il campo d'azione e a creare
la situazione pratica favorevole all'avvio delle riforme.
Nel '76 Michele fece parte del progetto finalizzato Prevenzione Malattie Mentali
avviato da Raffello Misiti, direttore dell'Istituto di Psicologia del CNR,
nell'ambito del progetto Medicina Preventiva. Si trattava di un programma
di indagine che, per la prima volta, impostava un nuovo rapporto fra ricerca
scientifica e pratica sociale, nel tentativo di superare il vecchio retaggio
culturale di tipo accademico.
Per la prima volta è stato posto il problema pratico della verifica
sui servizi pubblici, coinvolgendo nell'indagine - come soggetti e insieme
oggetti della ricerca - le amministrazioni locali; l'università con
Giulio Maccacaro, Hrayr Terzian, Gianfranco Minguzzi; Franco Basaglia come
espressione delle pratiche in trasformazione; Michele Risso, come psichiatra
e psicoterapeuta impegnato nella critica dei modelli tradizionali e nell'ipotesi
di un diverso rapporto tra specifico e nuove pratiche.
Si è trattato, dunque, di un programma che diventò il punto
di incrocio un po' anomalo forse di intelligenze brillanti e originali, di
personalità generose e appassionate, di esperienze concrete di cambiamento
che, negli anni - nonostante lo scarso livello di attuazione dei servizi sul
piano nazionale - hanno comunque imposto il "caso" italiano a livello
internazionale come luogo d'interesse e, insieme, di contraddizioni vive nel
settore della psi-chiatria e nell'area dell'emarginazione sociale.
Fare questo tipo di ricerca in un momento di transizione in cui l'oggetto
continuamente sfugge (non dimentichiamo che nel '78 era stata varata la legge
180 di riforma psichiatrica, con le rea-zioni negative che ha provocato nella
mancata realizzazione dei servizi e i sabotaggi culturali, corporativi e politici
che l'hanno accompagnata); fare una ricerca con questo tipo di obiettivi (l'identificazione
della domanda, il confronto fra le discipline, le tecniche e i loro valori
in rapporto alla risposta dei servizi pubblici, il gioco dei ruoli), in una
realtà in cui la distanza tra le esperienze esemplari e la situazione
generale si manteneva - nonostante la riforma - ancora enorme; fare questa
ricerca in queste condizioni oggettive richiedeva tempi lunghi e un interesse
non solo di facciata o strumentale da parte delle istituzioni, del Ministero
della Sanità, del mondo accademico, delle forze politiche e sindacali,
delle forze sociali che avrebbero dovuto lavorare contemporaneamente al cambio
culturale generale, se si voleva che le pratiche su cui si studiavano nuove
ipotesi teoriche potessero svilupparsi ed esprimere piú chiaramente
una qualità di intervento che andava ben oltre la messa in discussione
del semplice assetto organizzativo dei servizi, richiedendo il riconoscimento
di una dignità culturale e teorica ancora difficile da esplicitare.
Il progetto ebbe un'evoluzione piú modesta perdendo, in parte, l'ambizione
e il respiro, della premessa originaria. Ovviamente a questo non è
estranea la morte di Giulio Maccacaro e Franco Basaglia, seguita a breve distanza
da quella di Michele Risso e piú tardi di quella di Lello Misiti, di
Gianfranco Minguzzi e di Hrayr Terzian. Risulta comunque chiaro che il messaggio
culturale contenuto nell'intuizione di partenza (il famoso documento non ufficiale
sottoscritto dai cinque amici scomparsi) non lo si è voluto capire
né raccogliere da parte del mondo accademico, delle istituzioni preposte
alla ricerca e alla programmazione in campo sociosanitario, dall'establishment
professionale medico-psichiatrico. Tutti hanno infatti continuato a difendere
l'usuale separazione delle competenze, dove ciascuno resta sovrano del proprio
ordine e gioco, dimostrando quanto poco avessero interiorizzato della nuova
cultura. Mentre, nonostante il clima di sordità e di ostruzionismo,
le esperienze pratiche hanno continuato in questi anni a svilupparsi, a crescere,
a porsi e a porre nuove domande.
Si può comunque dire che le questioni poste allora sono ancora pi&u
acute; drammaticamente e clamorosamente aperte da quando l'esistenza di un
Servizio Sanitario Nazionale ha riconosciuto il diritto alla tutela della
salute per tutti, e i cittadini sono andati via via facendosi sempre piú
consapevoli di questo diritto. L'incontro e la verifica fra le diverse discipline,
i corpi professionali e la pratica sociale, premessa di base del programma
del PMM, non è rimasto soltanto un incontro o una contaminazione delle
discipline con la disuguaglianza sociale sempre piú esplicita nei servizi
pubblici, ma è diventato un incontro/scontro con il problema dei diritti
dei cittadini con cui le discipline stesse sono costrette a misurarsi.
Nel momento, però, in cui un diritto indivisibile qual è il
diritto alla tutela della salute deve essere concretamente tradotto in regole
e comportamenti quotidiani della persona e verso la persona, esso può
essere realizzato solo se la vita complessiva della persona di cui ci si occupa
viene portata alla ribalta dal riconoscimento o dall'esistenza di quel diritto.
Il diritto alla tutela della salute, va infatti oltre il diritto alla cura,
mettendo in causa altri elementi. La definizione di salute data dall'OMS nella
carta di Ottawa (novembre 1986) è molto chiara nell'esplicitarne i
prerequisiti indispensabili, estranei al campo della Sanità: "la
pace, un tetto, l'istruzione, cibo, reddito, un eco-sistema stabile, continuità
nelle risorse ed equità sociale. Ogni progresso sul piano della salute
- sto sempre citando l'OMS - deve essere necessariamente e saldamente ancorato
a questi requisiti".
Un tale diritto, qualora lo si voglia realmente tradurre in termini di vita
quotidiana, dovrebbe dunque produrre, nell'individuo che l'ha acquisito, la
ricomposizione di tutta la gamma di bisogni di cui è fatta la sua vita,
in una unità che la disuguaglianza, da un lato, e gli specialismi separati,
dall'altro, avevano frantumato. E qui non parlo solo di disuguaglianza sociale,
ma anche di diversità di sesso, di opportunità, handicap di
qualunque natura, livelli diversi di potere, stati di sofferenza, di malattia,
di impotenza, impossibilità di espressione soggettiva in cui si intrecciano
diversità naturali e disuguaglianze prodotte che si presentano come
disuguaglian-za dei bisogni. La tutela della salute come diritto della persona
richiede dunque qualcosa che vada oltre gli specialismi fondati sulla separazione
dei bisogni e sulla parzialità degli interventi ad es-sa conseguente,
per diventare occasione o strumento di maturazione culturale e politica nei
confronti della complessità delle variabili di natura diversa, presenti
in ciò che si tende a continuare a trattare solo come disturbo psichico.
Se non si riesce a incidere anche su queste variabili lo psichiatra si richiude
e si difende nella tecnica pura, lo psicologo tende a mimare il modello medico
e l'assistente sociale va verso una psicologizzazione dei problemi sociali.
Il che si è spesso verificato e si sta tuttora verificando.
Michele è stato dentro questo processo di profondo cambia-mento culturale,
proponendo e riproponendo il problema della formazione degli operatori in
una situazione nuova e difficile che richiedeva, nella pratica dei servizi,
una messa fra parentesi dell'istituzione, dei ruoli, delle diverse discipline
in modo da creare una situazione che consentisse alla sofferenza di esprimersi
al di fuori degli schemi codificati. Solo dalle domande nuove, svincolate
da tutte le sovrastrutture istituzionali, poteva scaturire una nuova cultura
con cui dare risposte diverse. Ma solo risposte diverse potevano consentire
sia l'espressione sia una reale percezione dei bisogni.
Come ha retto, nel franare di tante ipotesi e utopie, una battaglia cosí
radicale che metteva in discussione concetti di base come normalità/anormalità,
che coinvolgeva a tutti i livelli la cultura, le istituzioni, l'assetto sociale,
la politica?
Certo, negli anni non facili che hanno seguito l'emanazione di una riforma
da tutti votata ma da tanti contrastata, molti aspetti della radicalità
o se si vuole dell'utopia sono andati perduti, appiattiti da un lato dalla
necessità di difendere la riforma stessa e di realizzare - nelle condizioni
date - il possibile, dall'altro dai fraintendimenti e dall'uso strumentale
che ne è stato fatto. E tuttavia essi restano alla base di ogni esperienza
concreta, pena il fallimento di ogni intervento. E ci sono stati fallimenti,
cedimenti e mistificazioni: quando il servizio si pone come puro ambito ambulatoriale,
distributore di farmaci o di psicoterapia a ore; quando si fa il palleggio
delle competenze, ignorando i bisogni del malato e le difficoltà della
famiglia; quando si mistifica con un semplice cambio di etichetta il permanere
dei vecchi servizi e della vecchia logica. Pure molti elementi della nostra
battaglia sono già incorporati nella nostra cultura, al di là
e ben oltre il campo della psichiatria: esattamente come erano nati nel cuore
delle lotte poli-tiche e sociali di quegli anni.
Ho cercato di segnare, senza un ordine preciso, alcune parole chiave attorno
alle quali ruotava la lotta concreta al manicomio come istituzione, alla teoria
scientifica che lo sosteneva, all'organizzazione sociale che ne richiedeva
l'esistenza. Ogni parola ne contiene altre, cosí da formare una sorta
di rete di suppor-to a un pensiero e un'azione in continua evoluzione: le
parole di un processo di liberazione.
Rispetto della/delle diversità, considerate non piú come elemento
da allontanare e da espellere, ma come un bene da inglobare quale arricchimento
della nostra vita e della nostra cultura, su cui basare ogni possibilità
di cambiamento. Inoltre differenziazione fra diversità naturale e disuguaglianza
sociale o individuazione del processo in cui l'una viene tradotta nell'altra
per consolidare il dominio.
Lotta all'istituzionalizzazione sia interna al manicomio da distruggere, sia
nella società. Cioé lotta al farsi istituzione anche di ogni
istanza liberatoria attraverso norme e ruoli fissi che sovrastano, quando
non ignorano, i bisogni e gli interessi dell'individuo cui formalmente dovrebbero
rispondere. Quindi la necessità di un processo di cambio permanente
che rimetta in discussione norme e ruoli.
Accettazione del rischio come primo atto di reciprocità nel graduale
processo di liberazione dell'internato. Iniziale rischio della libertà
del malato che via via si è trasferito a livelli diversi: il rischio
del limite, della norma, della perdita di sé e della propria identità.
Il che è spesso avvenuto in molti operatori che hanno avuto bisogno
di ripiegare su forme diverse di difesa quali l'assunzione delle tecniche
come valore assoluto, la rigidità delle figure professionali, i ruoli
fissi, la stereotipata scientificità degli interventi.
Accettazione del conflitto. Secondo la logica del "piú forte"
il conflitto viene sempre eliminato, eliminando uno dei poli della contraddizione.
Accettare il conflitto significa allora tenere aperta la contraddizione, viverla
e spostarla ad un livello sempre piú alto per mutare, attraverso la
risposta, la qualità stessa delle doman-de. Nell'accettazione dell'altro
c'è sempre il rischio della perdita di sé quando il ruolo non
ti difende piú, non ti ripara, non ti copre. Ma è questa uscita
dal ruolo pur giocandolo che ti consente di passare da una domanda all'apertura
di un'altra domanda.
Esclusione/inclusione: il processo attraverso il quale il piú debole
(economicamente, socialmente, culturalmente, emotiva-mente) viene allontanato
ed espulso o si autoespelle dal consorzio sociale. Il manicomio aveva il compito
di accogliere e conte-nere tutto ciò che veniva espulso o che si autoescludeva.
I nuovi servizi devono invece tendere ad arginare questa espulsione, operando
verso l'integrazione, l'inclusione nel gruppo, nella cultura, nella società.
Gestione e negazione è stato il binomio fondamentale nei primi anni
goriziani, perché ne segnava la linea, lo stile del lavoro in una contemporaneità
di intervento che non consentiva l'abbandono dei malati, mentre si operava
per la distruzione del manicomio. Quindi negazione come demolizione del ruolo
tradizionale del manicomio, dello psichiatra, della psichiatria che, sotto
l'apparenza della cura, operavano per l'annientamento di chi veniva loro affidato.
E gestione come assunzione di responsabilità nei confronti di tutti
gli aspetti materiali e non, di cui può es-sere fatta la sofferenza
psichica: gestione come supporto, sostegno e presa in carico della persona
sofferente. Ma anche ge-stione e negazione del ruolo, della propria disciplina,
della scien-za che dovevano misurarsi con la pratica della disuguaglianza
sociale e che attraverso la nuova pratica dovevano modificarsi.
Denuncia del carattere non esclusivamente medico dei problemi psichiatrici
che si allargava alla denuncia del carattere non sempre strettamente medico
dei problemi ritenuti solo di carattere sanitario.
Lotta all'ideologia che fa diventare altro da ciò che sono i problemi,
cosí da poter offrire risposte preformate che non mettano in discussione
l'assetto sociale.
E ancora lotta al pregiudizio che continua a riformarsi; all'inerzia delle
istituzioni che continua a riproporsi; e il proble-ma centrale del potere
che continua a ripresentarsi con facce sempre diverse.
Si tratta di un'escursione molto veloce che certamente trascura altre parole
centrali o di passaggio. Su una vorrei però soffer-marmi particolarmente:
il primato della pratica, uno dei nodi problematici dal quale poter leggere
il perché della sopravvivenza di questa nostra battaglia, anche in
tempi in cui sembrano chiudersi sempre piú gli spazi di espressione
sia del soggetto individuale che di quello collettivo. Primato di una pratica
intesa non solo come mero "fare", ma come produttrice di un'altra
realtà e di un'altra cultura. Perché non si è trattato
di un cambio di teoria, ma della demolizione pratica di una cultura, possibile
solo se con-temporaneamente costruisci altro: altro sostegno, altro supporto,
altra cura, altro concetto di salute e di malattia, di normalità e
di follia.
E allora credo che - in un contesto generale di bisogni/diritti antagonistici
quali quelli del malato, della famiglia, della società - non sia inutile,
anche in un ambito politico sociale mutato, riprendere a parlare dell'attualità
di tutti gli elementi che costituivano il carattere dirompente di questa impresa
perché la coppia gestione/negazione in questo settore è ancora
in atto, rappresentando la psichiatria una delle contraddizioni che in questi
anni non si è riusciti a chiudere con nuove ideologie di ricambio:
troppe pratiche (anche se purtroppo non tutte e non nell'intero paese) sono
lí a testimoniare che le semplificazioni portano sempre agli stessi
risultati (la vittoria del polo piú forte del conflitto); che la complessità
comporta una messa in discussione dell'individuo, della collettività,
dei ruoli, delle regole, della scienza, della politica.
Occorre tuttavia tener conto di ciò che è cambiato in questi
anni nel contesto politico-sociale per poter individuare chiaramente dove
stanno i conflitti, dove sta la contraddizione attuale su cui operare. Il
manicomio è ancora presente (20.000 persone sono ancora internate e
non ce ne dimentichiamo); mancano servizi e strutture, la qualità dell'intervento
è troppo spesso scadente e insufficiente; molti famigliari denunciano
che il manicomio si è spostato nelle loro case dove, troppo spesso
senza aiuto o con pochi sostegni, reggono il peso del parente malato. Ma nessuno
vuole ricostruire il manicomio. La cultura dell'esclusione totale, della de-lega
alle mura, alle chiavi, ai cancelli, alla violenza istituzionale gratuita
e disumana, è vinta.
Si deve però dire che la stagione delle polemiche non era dovuta solo
al mancato sostegno della riforma (anche se esso ha avuto un peso determinante),
ma anche alla natura del processo culturale messo in atto, che doveva operare
sia sul pregiudizio sociale rispetto al malato mentale, sia sul pregiudizio
scientifico rispetto alla malattia. Il punto di partenza era per noi l'accettazione
del conflitto, da cui può nascere un modo diverso di percepire i bisogni
delle persone, per spostare la contraddizione espressa dalla malattia ad un
livello via via sempre diverso. Si tratta di un conflitto di potere e di interesse
fra il paziente e la famiglia, fra il medico e il paziente, fra l'adulto e
il giovane, fra il docente e lo scolaro, fra l'uomo e la donna, l'individuo
e la socie-tà. Se il conflitto scompare o è appiattito soccombe
sempre il polo piú debole.
Il processo necessario a questa trasformazione culturale è dunque lento
e difficile. Ed è possibile se, insieme allo smantel-lamento dei vecchi
ospedali, non si sono organizzati semplici se-vizi ambulatoriali ma si è
creata, per i vecchi e i nuovi malati, la possibilità di vivere in
modo diverso la propria sofferenza, vista ora come il prodotto di un insieme
di fattori e non solo come se-gno di pericolosità sociale da reprimere.
A questa sofferenza, che si rivela piú complessa e nello stesso tempo
piú semplice, occorre rispondere con strutture e servizi che consentano
altre for-me di sostegno, supporto, protezione, cura, tutela, assistenza.
Che siano insieme luoghi di vita, di stimolo, di confronto, di opportunità,
di rapporti interpersonali e collettivi diversi, che puntino ad un cambio
di cultura e di politica, prima sociali che sanitarie.
Una delle tante sfide che ci aspettano resta quindi, fra le altre, il problema
del farsi istituzione nella quotidianità della nostra vita. Il che
ci rimanda a quelle domande "di largo respiro" che un gruppo di
amici - da molto scomparsi - ha posto come base di ricerca teorica e di nuove
pratiche istituzionali tanti anni fa.
Pietro Ingrao
ATTUALITÀ E RICCHEZZA DELLA RIFLESSIONE
DI MICHELE RISSO
Ho conosciuto Michele Risso e sono fiero di essere stato un suo amico. Ancora
oggi sento acerbo il dolore per la sua morte immatura che ha troncato una
ricerca in pieno rigoglio e di straordinario significato umano.
Io non ho assolutamente la competenza per ragionare sullo specifico lavoro
di ricerca, e sul ruolo grande che Risso ha avuto in quella stagione straordinaria
di lotta che ha lavorato ad abbattere le recinzioni fatali entro cui per secoli
è stata segregata e inchiodata la sofferenza psichica.
Da cittadino ed anche da militante della sinistra italiana sento tuttavia
il bisogno di ricordare le ricerche illuminanti e liberatrici, con cui Michele
Risso ci ha aiutato a leggere e capire vicende basilari del nostro tempo.
Ricordo tutta la pungente, alta riflessione sulla Heimweh, e oggi essa mi
appare una ricerca di straordinaria anticipazione e uno squarcio di luce su
un problema enorme, che oggi sta, ancora di piú, squadernato dinanzi
a noi, con inaudita veemenza. È impressionante, rileggendo Risso, verificare,
come egli, quasi profeticamente, si sia chinato su uno dei fenomeni che stanno
rivoluzionando la vita di questo pianeta: sui grandi processi di mi-grazione
che reca con sé dolorosamente la civiltà industriale e che stanno
avendo nuovo doloroso alimento nell'era del capitalismo globale, dell'"impresa
rete", degli sconvolgenti processi di precarizzazione, che stanno frantumando
su scala mondiale il mondo dolente del lavoro salariato. Ci sono, in "A
mezza parete", pagine di una sconvolgente attualità: come quando
si scrive: "... la società industriale per mantenersi e riprodursi
deve ricorrere a strategie di dominazione e a sistemi di controllo sociale;
la scienza medica e la psichiatria in particolare forniscono a queste stra-tegie
utili strumenti ideologici e opportune proposte operative ... un immenso travaso
di popolazione viene spiegato con bella semplicità quale risultato
di personalità costituzionalmente malate". E tutta la articolata,
paziente ricerca con cui nella riflessione di Risso si mettono sotto il microscopio
i modi e le varianti con cui nei secoli si è occultato con leve "biologiche"
la trama pesante della dominazione sociale e i traumi che recava con sé
lo sradicamento, la compravendita della forza lavoro secondo le fasi, i bisogni,
i ritmi dello sviluppo capitalistico.
C'è qui una spiegazione anticipatrice dei fenomeni di oscuramento di
massa, con cui oggi vediamo tornare in campo un razzi-smo, che identifica
l'immigrato di colore con l'intrusione di "barba-ri": si tenta ideologicamente
di rimuovere un grande processo storico che sta schiodando e scavalcando i
confini e i limiti degli Stati nazionali, e spingendo milioni di esseri umani,
stretti dal biso-gno e dalla fame, a tentare salvezza in quell'Occidente sviluppato
che si era fatto ricco predando i continenti del sottosviluppo.
"A mezza parete": ecco un testo da far leggere come materia di studio
nelle scuole: dai ragazzi e adolescenti che ormai devono prepararsi a vivere
in un pianeta in cui civiltà, costumi, livelli diversi di sviluppo,
si incontrano e dolorosamente si mischiano: in un mondo dove il convivere
e anche l'apprendere dai vari mondi della "differenza" sta diventando
un nodo essenziale, se vogliamo salvarci dai fondamentalismi e da atroci conflitti
interetnici.
E un'altra coordinata che mi pare di ritrovare sempre nel pensiero di Risso
è la cautela salutare, la prudenza con cui egli si accosta alla nozione
di "norma": questa attività del normare, cosí irresistibilmente
connessa alle istituzioni del potere che tenta di incasellare nell'astrazione
il fluire del vivente e che ha segnato tanta parte dell'istituzione segregante.
Sono stato, nella mia lunga vita, molto dentro i processi e le regole delle
istituzioni politiche. Mi sono occupato molto del modi di fare le leggi; e
però forse proprio questa frequentazione e il confronto quotidiano
con il variabile e fluente dispiegarsi del vitale mi ha aiutato a guardare
con prudenza al "normare", al suo inevitabile carattere semplificante
e riduttivo. E parlo anche della normazione per tanta parte non dichiarata,
non formalizzata, che diventa dominio alienante in quella relazione produttiva
capitalistica in cui quotidianamente siamo immersi.
Ho imparato da Risso a riflettere su quest'atto delicatissimo che è
la relazione tra vita e norma, fra il fluire irriducibile del vivente umano
e le tecniche sottili e prepotenti dell'istituzione: e non solo dell'istituzione
segregante.
Qui sento in ogni riga, in ogni pagina della ricerca di Risso un insegnamento
tanto prezioso quanto, sempre, problematico, continuamente aperto alla fecondità
del dubbio, dell'interrogarsi. E mi colpisce come il suo pensiero sulla sofferenza
psichica non si sottragga mai al confronto con le logiche dominanti della
"malattia", con il mondo che egli in fondo vuole schiodare dalle
sue mistificanti certezze.
È anche questa pazienza del confrontarsi e del misurarsi con l'Altro
che mi sembra una dote inestimabile in questi tempi di dure asserzioni e processi
sommari.
Ecco allora l'attualità della riflessione su Risso, e su tutta grande
battaglia combattuta in Italia contro la istituzione segre-gante. Non dimenticherò
mai il debito di gratitudine che debbo a chi condusse quella lotta e ci educò
ad un atteggiamento radicalmente nuovo verso la sofferenza psichica. Sono
state schiuse porte e abbattute mura e torri, che nonostante tutto nessuno
po-trà rimettere in piedi.
COSA CI HA INSEGNATO
MICHELE RISSO. ABBATTERE I MURI DEL SILENZIO, ECCO IL MESTIERE DI VIVERE
(Pietro Ingrao, da L'Unità del 5 giugno 1981)
C'è una sorta di incredulità di fronte a una vita ricca che
si spezza proprio nel suo fiore, mentre sembra che stia per espri-mere tante
potenzialità. E Michele Risso dava al massimo l'immagine di una vitalità
intensa, direi: di una tensione verso la vita, come di una continua ricerca
delle molte forme della vita, come un andarle a ritrovare dove altri vedevano
solo esistenze crollate, rami secchi.
"Psicoterapeuta" è una parola che suona - insieme - astrusa
e ambiziosa; può sembrare persino presuntuosa. Essa indica il "mestiere"
di Michele Risso; e forse serve a sottolineare quel suo impegno attivo anche
di fronte a "casi", a persone, a vicen-de umane estremamente complessi,
quella sua volontà quasi disperata di "intervenire", anche
dove la battaglia sembrava perduta, che hanno contrassegnato la sua specifica
presenza nel gruppo di psicanalisti e di psichiatri, dentro il quale lavorò,
e che a me sembrava una sua straordinaria volontà di comunicazione.
Eppure a me riesce difficile chiudere in quella parola di gergo tut-ta la
"curiosità" (forse è un termine sbagliato, ma non
so adoperarne un altro), tutta la volontà di scoprire gli "altri"
oltre le casel-le consuete, tutta quell'apertura verso la vita, anche nelle
sue forme piú tormentate e rotte, che mi sembrava di cogliere nell'opera
e nella battaglia di uno scienziato come Risso. Mi sem-brava uno che andasse
alla ricerca di identità individuali, come di luoghi, sentieri, forze,
la cui ricchezza e anche originalità fosse ignorata, ferita, sommersa.
Quando si parlava con lui mi sembrava sempre teso a questa scoperta, come
se dicesse: guarda bene, guardiamo a fondo.
Ecco allora un senso di incredulità di fronte alla malattia e alla
morte che troncano un percorso cosí denso di vita, in fondo: di amore
alla vita, di estrema fiducia nella vita. Una rottura esterna, oscura, di
cui non ci si dà ragione; per cui al dolore si unisce un senso di frustrazione,
di casualità non dominabile; e non si è sicuri se cosí
pretendiamo troppo (cioè chiediamo garanzie e sicurez-ze impossibili
per noi stessi, per la condizione umana) o se ci sembra di aver fatto troppo
poco (quasi un rimorso anche personale per l'aiuto che non abbiamo saputo
dare a quella tensione vitale che viene troncata).
Ma si può ragionare anche in altro modo. Michele Risso e Franco Basaglia
e altri del gruppo che ha condotto la battaglia per una nuova psichiatria,
hanno schiodato vecchi e pesanti diaframmi che bloccavano le nostre menti
sui temi essenziali riguardanti la soggettività individuale, il rapporto
fra di essa e il farsi delle istituzioni, e quindi la nozione stessa moderna
di soggettivi-tà e di libertà. Non si è trattato solo
delle porte dei manicomi, e di chi vi stava chiuso dentro. Questi uomini hanno
aperto finestre anche a noi, e noi abbiamo cominciato a vedere cose che non
vedevamo: su determinate istituzioni, e sulle regole che sono la trama esplicita
(o nascosta) di tanti nostri comportamenti.
Altri potrà dire, con competenza che io non ho, quali sono state le
ascendenze, i cammini, e anche le difficoltà e i limiti attraverso
cui Risso, Basaglia e altri hanno abituato i nostri occhi a vedere in modo
diverso nostri simili, e quindi anche dentro di noi. Io annoto qui il fatto;
qualcosa che è avvenuto. Incontrando oggi altri, persone, vita, storie
soggettive, noi guardiamo tutto ciò non piú come prima: nel
senso che il nostro orizzonte si è allargato; e si intravedono anche
possibilità, ricchezze, creatività, dove prima vedevamo solo
l'assurdo, il disfacimento, in fondo; la morte.
È possibile che la lingua nuova non sia ancora tutta limpida. Ma sono
cambiate alcune cose nel nostro vocabolario. Di fronte alla caducità
effimera di altre vicende, cose, gesti, parole, che usualmente vengono definiti
"fatti", e che trovano spazio e onore nelle cronache correnti, ecco
innovazioni vere, forti, che hanno agito nel profondo: nel profondo anche
di molti che non conosco-no il nome di Risso e che forse sono stati toccati
solo di riflesso dall'onda nuova. Queste cose si possono dire con orgoglio,
pensando all'opera e alla battaglia di uomini come Michele Risso. Parliamo
di radici nuove, che non sarà facile a nessuno distruggere. Allora
anche la rottura improvvisa e immatura della vita può essere vista
come la sfida affrontata per allargare la visuale, per pulire e sgomberare
gli occhi, per imparare non solo a capire sofferenze, ma a scoprire persone,
forze in qualche modo: nuovi mondi.
Lo scenario consueto, che ci viene presentato ogni mattina da chi di dovere,
dice molto poco di questi "fatti", a cui cerco di alludere; di queste
innovazioni e aperture, di ciò che esse possono dare per capire il
nostro tempo, e per fornire una risposta a que-sta domanda ansiosa che sempre
piú ci portiamo dentro: come comunicare. Comunicare, nel significato
piú largo, fecondo.
Ma è possibile parlare oggi di risorse, e quindi anche di avvenire
di singoli e di collettività, senza discutere di questi temi, e di
come si costituisce nei fondamenti, una cultura del domani? Oppure sarebbe
vero che conta solo il gioco delle "logge"?
Sappiamo che non è per caso che certi riflettori ci mostrano oggi solo
certi scenari e non altri. C'è una lotta. Bisogna allora che si allarghino
e si moltiplichino gli uomini "curiosi", amanti della vita, con
occhi aperti, come è stato Michele Risso. E bisogna rispondere con
la lotta e con il disprezzo a coloro che vorrebbero rimettere in piedi quelle
mura fradice che per fortuna abbiamo cominciato ad abbattere. Come dispiace
non aver saputo dire queste cose, in modo semplice, all'amico e compagno Michele
Risso quando era vivo e probabilmente gli avrebbe dato ancora piú forza
nel suo lavoro!
Regina Chiecchio
LAVORARE IN PSICHIATRIA. LA FATICA DELLE CONTRADDIZIONI
Una riflessione attuale sulla psichiatria continua ad avere in sé
la contraddittorietà che Michele, con il suo spirito critico ed una
profonda conoscenza psichiatrica e psicoanalitica sapeva sottolineare con
tanta chiarezza, nel tempo delle lotte anti-istituzionali ed a ridosso della
promulgazione della legge 180.
In questi giorni è stato inaugurata a Torino una nuova comuni-tà
psichiatrica, nel territorio dell'Azienda Regionale U.S.L. 3, a lui dedicata.
Essa è inserita in un contesto di servizi per il disagio psichico,
molto articolato (tra le Comunità residenziali e semiresidenziali per
un totale di cinquanta posti, un Centro Diurno, un Centro di Consultazione,
due Centri di Trattamento, un Centro di Psicoterapia Individuale, di Gruppo
e delle Famiglie) e che offre pertanto un intervento diversificato e modulato
secondo i bisogni dell'utenza, che non è piú quella cui comunemente
ci si riferisce pensando ai degenti degli Ospedali Psichiatrici. Infatti,
ciò che era inimmaginabile vent'anni fa, ora è diventato esperienza
quotidiana: i servizi per la Salute Mentale sono entrati a pieno titolo in
una rete di servizi territoriali, utilizzati ampiamente dalla popolazione,
che vi si rivolge per i motivi piú svariati, non soltanto per patologie
psichiatriche definite, piú frequentemente per un disagio caratterizzato
da una "infelicità" esistenziale.
Questo dato indica certamente una capacità degli operatori di offrire
un'immagine di presenza, di competenza e di efficacia ad affrontare numerosi
problemi: un punto di riferimento di fronte ad una sofferenza allargata che
prende la via dell'espressività psichiatrica. Questa estensione di
richiesta di aiuto ai Servizi di Salute Mentale fa immediatamente riflettere
sulle dimensioni di una disgregazione esistenziale e sulla perdita di capacità
di comuni-cazione tra le persone, che sotto la spinta di una psicologizzazione
sempre piú diffusa, non riescono a darsi altra soluzione che non sia
quella psichiatrica. Come operatori, quotidianamente ci troviamo di fronte
a questa ampia "zona grigia" del disagio psichico e viene naturale
ripensare alla frase di Michele "la psicanalisi non può candidarsi
come ancora di salvezza, come sostituzione di ciò che non è
avvenuto nel sociale…" che può essere estesa ad ogni tipo
di risposta eccessivamente psicologizzante, vissuta come salvifica, che cada
magicamente a risolvere problemi che andrebbero affrontati in un altrove relazionale,
dove invece c'è il vuoto. Perciò viviamo costantemente la contraddizione
di fornire proprio una risposta psichiatrica, ben sapendo che non è
la piú adeguata: essa appare in certi casi l'unica che la persona riceve-rà,
in sostituzione di altre, assenti nella rete familiare e sociale: una offerta
terapeutica come unica forma di relazione possibile. Punto questo meritevole
di attenta riflessione: è segno di vero benessere sociale ricevere
aiuto solo attraverso la patologia?
Un altro elemento di contraddizione nella operatività quotidiana riguarda
il rapporto tra la funzione terapeutica e riabilitativa - che caratterizza
il rapporto con pazienti psichiatrici - ed il com-pito di controllo sociale.
Con il passare degli anni dalla promulga-zione della legge 180, l'ottica di
intervento è stata quella di offrire agli utenti possibilità
riabilitative, con un impegno attivo in campo economico da parte dei Servizi,
in vista della ricerca di possibilità di impiego. Il fiorire e lo svilupparsi
delle Cooperative Sociali sul mercato del lavoro ha consentito buoni risultati,
seppur parziali, permettendo un reinserimento sociale fattivo. Ma contemporaneamente
non è venuto meno un compito di controllo sociale, seppure in forma
medicalizzata: l'utilizzazione di schemi nosografici sempre piú codificati,
scale di valutazione dei sintomi e protocolli di comportamento ha come conseguenza
l'oggettivazione della persona in aspetti funzionanti o non funzionanti. Concetto
costantemente ripetuto, forse anche desueto: eppure esprime la tendenza della
psichiatria a rivestirsi di panni piú nuovi, moderni e scientifici
in questi ultimi vent'anni, ma sotto i quali si ha di nuovo l'impressione
di rivedere la persona "dimenticata", il sintomo riportato alla
norma, la richiesta di aiuto incanalata verso la diagnosi. Non è una
critica a noi operatori, ma la consapevolezza che anche quando ci muoviamo
nel migliore dei modi, ed all'esterno l'intervento appare efficace, non possiamo
sfuggire ai vincoli della normalizzazione.
Anche rispetto a questa considerazione scriveva Michele: "non abbiamo
bisogno di una psichiatria che faccia sempre meglio, ma di una psichiatria
che si faccia continuamente domande sul senso del fare". (M. Risso e
P. Repetti, Cronicità e Cronificazione, Sapere, Agosto/Settembre 1981).
Molto spesso i giovani operatori, di fronte ad una quotidianità inquietante,
pongono una richiesta di acquisizione di tecniche specifiche, piú che
di capacità di ascolto attento; di controllo di se stessi piú
che di osservazione delle pro-prie difficoltà come lettura delle difficoltà
dei pazienti. La conoscenza delle tecniche è importante, ma esse non
danno risposte preconfezionate: occorre conoscerle bene per dimenticare la
co-azione ad aggrapparvisi.
Gianna Tangolo
MICHELE RISSO. LE RADICI DI UNA RICERCA.
Dice bene Vittorio Lanternari nella sua "Nota su Sortilegio e Delirio
di Risso e Böker" (da Michele Risso, Wolfang Böker, Sortilegio
e delirio. Psicopatologia dell'emigrazione in prospettiva transculturale,
Liguori Editore, Napoli 1992) quando afferma che "da un lato De Martino
da antropologo si apriva a problematiche d'ordine originariamente psichiatrico,
illuminandole di nuova luce attraverso la rivisitazione critica dei modelli
teorici e cognitivi tra-dizionali, sotto l'effetto della comparazione interculturale
e della contestualizzazione olistica, critica, dei fenomeni culturali analiz-zati.
Risso viceversa si muove da psichiatra, per aprirsi al principio originariamente
"antropologico" della contestualizzazione socioculturale e dell'allargamento
della visuale diagnostica ...". E certo, Risso ha ripreso ed elaborato
l'eredità demartiniana dando peraltro al suo approccio psichiatrico
un andamento e un movi-mento divergenti rispetto alla psichiatria tradizionale.
Mentre cioé in quest'ultima si evincono parametri diagnostici di carattere
generale a partire da singoli casi o eventi, che diventano paradigmatici elementi
del modello secondo una prospettiva centrifuga, l'etnopsichiatria si pone
in termini per certi aspetti opposti. Seguendo una proiezione centripeta,
legge come nell'individuo agiscono e interagiscono eventi sociali, storici,
culturali, relazionali. La contestualizzazione dell'individuo e della sua
storia è d'altra parte possibile solo in un dialogo articolato e intrecciato
con altre discipline. La non chiusura al dialogo è stata un'altra caratteristica
fondamentale della personalità di Michele Risso che non ha eretto steccati
tra psichiatria e antropologia, tra psicanalisi e psichiatria, tra individuo
e contesto, ambito sociale e culturale. Coerentemente al suo complesso approccio
culturale (era infatti una persona straordinariamente eclettica), e alla sua
sensibilità umana e politica, meno che mai poteva tollerare steccati
e muri a separare le persone, a chiuderle fisicamente e simbolicamente.
La sua battaglia contro le istituzioni totali in questo orizzonte si inscrive.
Ma lo sguardo all'Altro, attento anche a una cultura "altra", ai
fenomeni di straniamento e di sradicamento che l'incontro con una cultura
dominante pone - e a cui era stato sollecitato dai molti casi di immigrati
italiani in Svizzera, raccolti nel volume sopra citato, ed efficacemente espresso
nella bella metafora dell'alpinista proposta in "A mezza parete"
(Delia Frigessi Castelnuovo, Michele Risso, A mezza parete, Einaudi, Torino
1981) -, consente a Michele Risso qualcosa di piú della semplice accettazione/registrazione
delle diversità culturali.
In questa continua ricerca, in questo spostarsi senza stanchezza si caratterizza
e si connota il suo assolutamente innovativo approccio psicanalitico: "la
psicanalisi non può candidarsi co-me àncora di salvezza, come
sostituzione di ciò che non è avvenuto nel sociale, né
come pratica di reintegrazione degli individui all'interno di quella stessa
logica che li ha tenuti lontani come persone prive di destino. L'analisi non
è la salvezza perché‚ in tal caso si costituirebbe, come
tutte le salvezze, come luogo catechistico di liberazione, come promessa la
cui realizzazione è legata al perpetuarsi di una fede.
Essa deve continuare a porsi come processo critico e contraddittorio vissuto
nell'ambito di una relazione duale all'interno della quale è possibile
la ricerca di un nuovo modo di relazionarsi agli altri e ai propri vissuti"
(da Michele Risso, Paolo Repetti Psicanalisi e Consumo: Metapsicologia e Metastoria,
Giornale Italia-no di Psicologia. Volume VIII, n.1, aprile 1981).
Il suo è un approccio che rappresenta in definitiva un ritorno critico
alle radici della propria cultura, in senso lato, e alla psichiatria e psicanalisi
tradizionali, piú nello specifico. E non è mai rifiuto semplicistico
né ripiegamento difensivo. La connotazione dialogico-dialettica con
l'Altro ne è infatti elemento, certo critico, e anche autocritico,
che parte - per ritornarvi - da una profonda conoscenza del proprio bagaglio
professionale e dei propri stru-menti culturali.
Qui sta, a mio avviso, la straordinaria ricchezza di Risso e del suo costante
impegno umano e politico; nel suo insegnamento stanno le risorse per affrontare
i nodi centrali, le domande di fondo che l'oggi, attraversato e segnato dai
grandi movimenti migra-tori, ci pone. E qui, in un dialogo sempre aperto con
lui, sta anche un modo per capire quanto lo sradicamento, lo straniamento
che investe il nostro mondo e noi stessi - nell'affannosa ricerca e nei tentativi
di ricostruzione di modelli identitari individuali e collettivi - radicalizzi
e renda piú cogenti quelle stesse domande.
Michele Risso è nato a Boves nel 1927. Si è laureato in medi-cina
e poi specializzato in neurologia e psichiatria a Torino. Dal 1955 ha lavorato
in Svizzera dove, fino al 1963, si è occupato prevalentemente dei problemi
della sofferenza mentale negli emigrati italiani. Quest'esperienza lo ha indotto
ad elaborare un atteggiamento critico nei confronti della "psichiatria
biologica" da un lato e dall'altro gli ha consentito un approccio più
complesso, se-condo direttrici di carattere antropologico. Da qui la sua ricerca
sui 'deliri di affatturazione' degli italiani ricoverati negli ospedali psichiatrici
svizzeri pubblicata nel 1964 in tedesco e nel 1992 in italiano (M. Risso,
W. Böker, Sortilegio e Delirio, ed. Liguori, Na-poli). Nel 1963, tornato
in Italia e stabilitosi a Roma, approfondisce ulteriormente questi temi collaborando
con Ernesto De Martino e con altri ricercatori quali Annabella Rossi e Lombardi
Satria-ni. Questo percorso (interrotto, ma mai completamente abbandonato)
si conclude con "A mezza parete", scritto poco prima della sua morte
con Delia Frigessi Castelnuovo e pubblicato da Einau-di nel 1982. Ma il ritorno
in Italia favorisce anche un altro rapporto, quello con Franco Basaglia. È
questo un legame profondo, tanto più profondo, forse, perché
non banalmente unanimistico, ma segnato da dissensi, discussioni, elaborazioni
critiche, cosí come dal comune impegno nella lotta anti-istituzionale.
Michele Risso, tra i fondatori di "Psichiatria Democratica", è
stata una figura centrale di quello straordinario movimento culturale, politico,
sociale che ha poi portato alla 180. Ma un altro aspetto ancora, certo non
marginale, caratterizza la sua figura: una pratica psico-analitica "straordinariamente
innovativa" giacché "la ricerca di Michele Risso non escludeva
alcuno dei diversi aspetti della soffe-renza" (G. Bignami). Ha collaborato
a numerose pubblicazioni: ri-cordiamo il prezioso contributo a "Che cos'è
la psichiatria", edito da Einaudi nel 1973, quello in "Psicologia
e psichiatria", Bulzoni, 1981, Psicanalisi e Consumo: Metapsicologia
e Metastoria, Gior-nale Italiano di Psicologia, 1981, oltre ai puntuali interventi
sulle riviste Sapere, Rinascita e su alcuni quotidiani. Michele Risso ci ha
lasciati nel 1981.
FARFALLE,
UOMINI E TOPI. CIOÉ: A CIASCUNO IL SUO FARMACO, NATURALMENTE
(Michele Risso, da il manifesto del 19 settembre 1979)
Ricordo una vecchia storiella. Il padre vuole educare il figlio púbere
alla vita sessuale. Gli dice: "Ricordi quella gita in montagna, tu ed
io, soli, nella bufera? Ricordi come trovammo rifugio in quella baita dove
c'erano, sole, madre e figlia? Tu giacesti allora, figlio mio, con la giovinetta,
ed io con la di lei mamma. Ebbene, figliolo, le farfalle fanno la stessa cosa".
La storiella mi viene in mente, riferita a tutt'altro contesto, leggendo l'articolo
- intervento di Gian Luigi Gessa, direttore dell'istituto di farmacologia
dell'università di Cagliari, a proposito della ricerca biologica nelle
malattie mentali (il manifesto, 31 agosto '79). L'autore, a sostegno della
tesi, peraltro inoppugnabile, che il biologo può essere storicamente
determinato e che il sociale può indurre modificazioni e danni biologici,
dice: "Per esempio, se si pongono dei topi in condizioni di sovraffollamento,
o di isolamento, si producono delle alterazioni neurochimiche, anche irreversibili,
che producono un comportamento alterato e che i farmaci possono prevenire
o "curare". Negli animali di laboratorio, perfino una dieta non
equilibrata somministrata alla madre può indurre modificazioni irreversibili
sulla composizione chimica del cervello dei figli, che si traducono in un
comportamento alterato dell'adulto" (le sottolineature sono mie). Si
potrebbe dire che sembra poco opportuno fare esperimenti in laboratorio quando,
per ciò che riguarda l'uomo, il sovraffollamento e l'isolamento sono
sotto i nostri occhi, "in natura" (si fa per dire), nei ghetti urbani,
nei vetusti manicomi, nelle carceri, negli ospizi, nella vita desolata degli
emigrati, nella solitudine di molti vecchi e di molte casalinghe. Per quanto
riguarda, poi, gli esperimenti con dieta non equilibrata, basta pensare alle
plaghe depresse del terzo mondo, dove gli squilibri dietetici si chiamano
fame cronica; e toccare con mano le radici storico-biologiche della qualità
della vita di milioni di persone che vegetano sonnolente agonizzando ai limiti
della sopravvivenza.
A questo punto, un assurdo suggerimento. Perché non esaminare sperimentalmente
in laboratorio le condizioni neurochimi-che, il substrato del comportamento
di un topo che vive "libero", con la possibilità di entrare
ed uscire a piacimento da una grande gabbia, cibo in abbondanza, vita sessuale
soddisfacente, passeggiate tonificanti, lunghi sonni ristoratori. E un balconcino
dal quale osserva gli altri topi in condizione sperimentale di sovraffol-lamento
o di isolamento.
Ora, a prescindere dal substrato biochimico, chi vorrebbe modificare con farmaci
opportuni il comportamento del topo in oggetto? In altre parole, non è
il caso di far ballare i topi, basta aprire gli occhi e guardarsi intorno.
Ma Gessa mi dirà che sa benissimo tutte queste cose e che ne tiene
ovviamente conto: a lui interessa, e ciò che scrive ne dà testimonianza,
il comportamento alterato ed il substrato neurochimico di questo. Qui, a mio
avviso, gli occhi bisogna tenerli aperti riguardo alle conseguenze degli esperimenti
in animali da laboratorio, nei quali si riscontrano, in condizioni di stress
(e qui non il passaggio dal sociale al biologico, ma il salto dalla realtà
sociale alla ideologia biologica) modificazioni neurochimiche; modificazioni
che producono un comportamento abnorme; comportamento che può essere
"preventivamente" impedito o "curato" con farmaci opportuni.
Fin qui nulla di male, siamo in laboratorio. Ma è tuttavia strano che
in laboratorio si cerchino le radici storico-biologiche dello stress da sovraffollamento
e da isolamento e si sperimentino prodotti chimici adatti per la "prevenzione"
e la "tera-pia". Per impiegarli, poi, come, questi farmaci? Per
i milioni di ro-ditori che, nelle grandi città, vivono, è noto,
in spazi esigui e inospitali (topaie) o isolati nelle plaghe deserte del sottosviluppo?
Credo di no.
Non voglio dire con questo che gli psicobiologi intendano "curare"
con farmaci chi vive oppresso per la mancanza di spazio o chi soffre per l'isolamento.
Questo, però, succede, eccome. Perché, nella fattispecie, chi
va dallo psichiatra non dice che è pigiato con gli altri; dice che
è irritato, labile, insofferente; e la casalin-ga cinquantenne isolata
o il vecchio pensionato solo non dicono "sono una donna che fa una vita
senza senso, sono un vecchio che non serve piú a nulla"; ma dicono
"al mattino non mi va di alzarmi, tutto mi costa una immensa fatica,
non riesco a concentrarmi su nulla, mi addormento come un sasso e mi sveglio
nel bel mezzo della notte...". Lo psichiatra potrà, ovviamente,
porre delle domande, voler sapere come in realtà vivono queste persone,
chiarire quali sono le radici dell'oppressione e dell'emarginazione. Dopodichè,
piú o meno convinto e costretto, prescriverà ansiolitici e antidepressivi.
Nel talloncino di accompa-gnamento dei farmaci non sarà certo scritto
che tali prodotti servono contro il sovraffollamento o l'isolamento, ma si
elencheranno i sintomi sui quali le sostanze prescritte agiscono, ansia, irrequietezza,
apatia: sintomi riscontrati negli animali da esperimento che presentano, appunto,
alterazioni neurochimiche do-vute allo stress descritto.
Abbiamo quindi scienziati che hanno dimostrato in laboratorio che il sociale
incide sul biologico; ma abbiamo, al tempo stesso, un "substrato"
biologico sperimentale che giustifica l'uso del farmaco. Farmaco che può
essere usato, è vero, per lenire la sofferenza: ma che viene usato,
in una stragrande maggioranza di ca-si, per occultarne le cause; comportamento
storicamente determinato, cosí come è storicamente determinata
l'oppressione e l'emarginazione delle persone malate, inutili, improduttive,
in un mondo dove è proibito ammalarsi, pena la "terapia";
dove la sofferenza viene lenita, sí - e imbavagliata.
A ciascuno il suo, quindi, in questo mondo dove si sa tutto sul sintomo, salvo
togliergli costantemente la parola.
A ciascuno il suo farmaco, naturalmente.
APPENDICE 2 (M. Risso, W. Böker, ed. Liguori, Napoli 1992)
"Gli uomini badano, in genere, soprattutto a che cosa si dice. Così
accade spesso che analista e paziente, una volta chiarito ciò che a
vicenda dicono, credono di comunicare. Può darsi che comunichino, ma
probabilmente non attraverso ciò che dicono". (da una lettera
di un paziente)
Noi sappiamo sempre di più "di che cosa si tratta", sempre
meglio "come si fa": purtroppo non sappiamo con altrettanta sicurezza
perché i nostri pazienti guariscono, o migliorano, o non guariscono.
Chi abbia conoscenza di interventi psicoterapeutici nel mondo magico sa che,
in buona parte di casi, le parole, le formule espresse da uno stregone, da
un guaritore non vengono comprese razionalmente dal paziente e tuttavia hanno
su di lui un'azione che non può semplicisticamente essere definita
solo come "suggestiva". A questo punto ci si potrebbe domandare
se non succede qualcosa di analogo - mi sia concessa questa eretica ipotesi
- in psicoanalisi. È d'altra parte evidente che gli psicoterapeuti,
soprattutto nella cura di stati psicotici, entrano con i loro pazienti in
un mondo in cui le parole sono insufficienti ed inadeguate - e tuttavia debbono
essere usate - e le sensazioni ed i ricordi rimangono confusi. È il
mondo dell'angoscia, dell'estasi, della carenza, tanto più significativo
quanto meno il paziente può comunicarne verbalmente ed il terapeuta
interpretare.
Mi sembra discutibile, a questo punto, che lo psicoanalista abbia il diritto
di usare la sua martellante, schematica interpretazione; che potrà
forse riuscire a persuadere il paziente, ma che in prima linea serve a rassicurare
il terapeuta, per dire a se stesso che conosce il preciso significato di ciò
che, da parte del malato, gli viene incontro come angosciosa minaccia che
vorrebbe respingere o come insistente richiesta che non può essere
soddisfatta. Minaccia e richiesta rivestite inadeguatamente di espressioni
verbali. Bisognerebbe, a mio avviso, in questa situazione, rispondere in un
modo che corrisponda alla sensibilità del paziente, anche se l'espressione
verbale del terapeuta rimane altrettanto incompleta e frammentaria.
Credo che la consapevolezza di questo limite e della necessità di verbalizzare,
da entrambe le parti, qualcosa che precede il mondo della parola, costituisca
la base di quella comunicazione che, in mancanza di un'adeguata possibilità
di espressione verbale, nasce nell'ambito preverbale e rimane essenzialmente
pre-verbale. Su questa comunicazione si fonda, senza dubbio, un sostanziale
valore terapeutico; poiché se paziente e terapeuta accettano questa
funzione sono molto più attenti al contenuto affettivo della parola,
che non al suo significato rigorosamente e spesso miseramente formale. Questa
osservazione non vuole essere interpretata come una romantica attrazione per
l'irrazionale, ma sottolinea la coscienza di trovarsi di fronte ad un confine,
la cui consapevolezza non pone solo un limite ma schiude, anche, prospettive
alle quali il nostro atteggiamento scientifico non riesce ad avvicinarsi.
INTERVENTO SUGLI OPERATORI
PSICHIATRICI
"Paese Sera" del 17 ottobre 1981 anticipa la pubblicazione dell'intervento
di Michele Risso sugli operatori psichiatrici nella società di oggi,
apparso poi nel volume "Psicologia e psichiatria", a cura di Vincenzo
Caretti e Giovanni P. Lombardo, edito da Bulzoni.
Nell'Enciclopedia Einaudi, alla voce "Culturale materiale", si
legge: "il progresso materiale è forse l'unico progresso certo.
Se non c'è il minimo dubbio sul fatto che l'uomo abbia accresciuto
la sua padronanza sul mondo (...), non è certo che abbia aumentato
la sua padronanza su se stesso" (Richard Boucaille e Jean Marie Pesez:
Enciclopedia Einaudi, vol. 4, pag. 301). Per ciò che riguarda la padronanza
su noi stessi, l'unica cosa certa è che que-sta comporta prezzi altissimi.
In compenso, non c'è dubbio che la conoscenza che l'essere umano ha
di sé e dell'altro si è approfondita e che aumentato è
il bagaglio di conoscenze nel campo delle cosiddette scienze umane. Ciò
purtroppo non corrisponde ad una crescita del benessere psichico soggettivo
e collettivo, al contrario; ma questo non significa, necessariamente - come
alcuni in modo sbrigativo vorrebbero - che le conoscenze di cui si parla siano
infondate o campate in aria; può significare, tuttavia, che il loro
accumularsi vada di pari passo con la presa di coscienza dell'aumento del
disagio che tutti ci riguarda; e che, forse, da questo disagio in buona parte
derivi. Interpretare un disagio non vuol dire, purtroppo, avere in mano la
ricetta della cura. Quello che noi sappiamo non può nulla non dico
per sanare, ma per arginare il crescente malessere in cui viviamo
Tuttavia, nel nostro agire - e parlo qui di un agire specifico, come psichiatri,
psicoterapeuti, psicologi - dobbiamo, lo sottolineo, fare riferimento a conoscenze
che hanno un risvolto operati-vo, che vengono tradotte in tecniche di intervento,
in pratiche di cura (inteso, quest'ultimo termine, come tendenza, non come
escatologica aspettativa).
Ora, la domanda: quale cura, se il disagio di fondo rimane immutato? Quale
intervento se la ben nota qualità dei rapporti tra gli esseri umani
ne esce intoccata? Non si elimina il sospetto che le conoscenze si accumulino
e si affastellino indipendentemente dalla fondatezza del messaggio scientifico
originario, ma secondo il loro aderire ad una logica che le vuole applicate
come provvedimenti che finiscono per mantenere inalterate le cose fornendone
diversificate spiegazioni, interpretazioni, giustificazioni. La applicazione
delle tecniche appare, cosí, neutrale in quanto il suo ef-fetto rimane
del tutto neutro per ciò che riguarda i mutamenti essenziali (e non
di superficie) a livello individuale e collettivo.
Chi ha avuto la spregiudicatezza di affrontare il problema dell'effetto a
distanza dell'applicazione di varie tecniche di intervento in psicoterapia
è giunto a conclusioni abbastanza sconcertanti: sembra che, quanto
ai risultati, le tecniche usate abbiano carattere di intercambiabilità.
Questo non vuol dire che, per quanto riguarda le discipline che sottendono
le tecniche, "una valga l'altra"; ma che l'intervento tecnico incide
probabilmente molto meno di quanto si pensi sulla evoluzione del male; essendo
quest'ultima influenzata al contrario e molto di piú dal rapporto che
ha l'intervento tecnico con il contesto dei valori e delle regole sociali
in cui esso si situa.
L'evoluzione del malessere - il suo aumentare o diminuire - dipende quindi
non ultimo dal potere reale che hanno le conoscenze acquisite nel campo delle
scienze umane nei confronti del potere precostituito che le vuole al proprio
servizio. Ora, il potere conferito alle persone che detengono queste conoscenze
è scarso e consiste, soprattutto, nell'attuarsi di quella trasmissione
verticale delle conoscenze stesse, in ragione della logica dei ruoli.
Tale trasmissione, poi, non avviene nella pratica del lavoro quotidiano -
in tale caso non sarebbe piú verticale -, ma in sedi che sono lontane
dai servizi in cui questo lavoro si confronta con l'urgenza dei bisogni. Le
tecniche, calate dall'alto nella realtà dei servizi, rischiano di indurre
bisogni e di non rispondere alla domanda di cura. Prova di questo può
essere l'indagine multicentrica condotta dall'Organizzazione Mondiale della
Sanità, che suggerisce la conclusione seguente: il tipo di risposta
dei servizi non solo determina la domanda degli utenti, ma può favorire
processi di cronificazione della malattia che si vuole curare. In altri termini:
la distorta risposta dei servizi traduce il disagio in malattia e coagula
la condizione di sofferenza in uno stato definitivo che richiede non piú
cura ma assistenza, non piú intervento preventivo ma gestione routinaria.
Ancora una volta la domanda: quale cultura e per quali operatori. La situazione
italiana si trova, mi sembra, su un crinale abbastanza rischioso. Da un lato,
le esperienze di lotta ai manicomi - una pratica che ha avuto grande importanza
politica e sociale - mostrano appena ora il loro peso come rottura di paradigmi
della tradizionale psichiatria, come messa in discussione del concetto di
decorso e di cronicità delle malattie mentali, pur non formulando teorie
di interpretazione alternativa. Inoltre esse possono essere applicate solo
in parte e con difficoltà nel nuovo lavoro sul territorio e non sono
in grado di rispondere da sole alle domande urgenti di cura e di presa in
carico che non vengono piú orientate verso il manicomio, come in precedenza.
D'altra parte queste esperienze rifiutano un intervento tecnico codificato
da calarsi acriticamente nei servizi; tale intervento si propone tuttavia
come ineliminabile (il che non vuol dire che debba essere paracadutato verticalmente
nei servizi).
C'è quindi il pericolo di una dicotomia: l'angolo della forbice tende
ad allargarsi. Da un lato, servizi condotti secondo criteri non codificabili,
dove l'inventiva ha ormai poco spazio e la creati-vità si scontra con
gravi problemi assistenziali e di gestione; dall'altro luoghi di formazione
teorica degli operatori che forniscono conoscenze disarticolate da una concreta
pratica di lavoro.
Il problema da risolvere è, mi sembra, quello della saldatura - non
dell'accostamento - tra servizi e luoghi di formazione degli operatori. Come
questo sia possibile non so, né ho l'autorità né la competenza
per dire come. Mi sembra inoltre che sia inevitabile partire dai servizi e
dalla pratica di lavoro in essi svolta. Se è vero - ed è ormai
provato - che la risposta dei servizi condiziona non solo la domanda degli
utenti ma il decorso di quel disagio che l'utente presenta ai luoghi deputati
alla prevenzione ed alla cura, appare inutile e dannoso l'immettere dall'alto
nei servizi moderne tecniche di intervento e senza un piano organizzato di
verifica critica.
D'altra parte, è necessaria una formazione teorica degli opera-tori
che non sia una trasmissione verticale di "nuove" conoscenze da
tradursi in tecniche. Sinora, nel mondo delle sincronie convulse, dei "valori"
che si intrecciano nella loro interscambiabilità, troppo poco spazio
ha avuto la attenzione diacronica e la fatica a questa connessa. E' importante
prima di tutto sapere come e dove e quando nasce un messaggio scientifico;
in seguito, come "correttamente" lo si può applicare in campo
tecnico.
Paradossalmente, il sapere non porta all'operare immediato, ma ad una critica
dell'operare stesso. Se ci si prende la briga di osservare le cose da vicino,
ci si rende conto che il nuovo riluce molto meno di quanto vorrebbero i predicatori
della novella. E che il vecchio è infinitamente tenace e radicato proprio
negli strati sottostanti la coscienza di chi rappresenta, appunto, le "ultime
novità", con fiducia nelle magnifiche sorti e progressive.
Mentre parliamo qui di formazione di operatori - riprendendo un tema che fu
ampiamente trattato a Gorizia nel 1974, nel convegno "La pratica della
follia" i cui atti sarebbe forse opportuno rileggere; e a Trieste nel
convegno del Reseau del '77, per non dire di altre sedi come Pordenone, Perugia,
Bologna, recentissimamente -, a S. Maria della Pietà, a distanza di
quasi tre anni dalla legge 180, ci sono 1100 malati, dei quali la percentuale
di "ospiti" è del tutto esigua (poco piú di 50) con
circa 500 infermieri, 100 ausiliari, una trentina di medici immersi in una
situazione che non presenta accenni al cambiamento; molti dei malati sono
ancora legati ai letti, sembra che la loro cura e la loro liberazione siano
eventi che appartengono ad un improbabile futuro. Allora: quale formazione,
di quali operatori? Che cosa fa, che cosa non fa l'Ente locale? Che cosa esita
a fare, che cosa si rifiuta di fare? Quali le responsabilità, le inspiegabili
inerzie?
Inoltre: ormai, da tutte le parti si è concordi nel dire che i pro-blemi
dello specifico sono secondari ai problemi sociali e di struttura; che i nodi,
in altri termini, stanno altrove. E tuttavia si assiste a un fenomeno strano:
che lo specifico apparente, diversificato cavallo di Troia, entra nei servizi
secondo una strana logica: l'apprendimento delle tecniche - non delle conoscenze
-, l'adesione alle varie ideologie sociopolitiche, psicanalitiche, relazionali,
comportamentali, ecc., sta diventando elemento qualifi-cante per chi voglia
trovare accesso al lavoro piú o meno retribuito nei servizi. La mano
sinistra, volta alla critica del sociale, ignora ciò che fa la destra,
intenta ad una "formazione" di operatori che sarebbero forse da
discutere. Certo, questo non vuol dire partecipazione delle conoscenze (l'espressione
suona addirittura vetusta), ma ridistribuzione del potere, relativo, appunto,
alla formazione cosiddetta. Potere limitato, a mio avviso miope, anche se
nella apparenza gratificante.
CRONICITÀ E CRONIFICAZIONE (Michele Risso e Paolo Repetti, su Sapere - Agosto-Settembre 1981 - pag.53-56)
"Senza speranza non è la realtà ma il sapere che - nel
simbolo fantastico o matematico - si appropria la realtà come schema
e così la perpetua" (Horkheimer e Adorno 1947).
A partire da queste parole si sarebbe tentati di pensare che ancor prima che
nella pratica medica, nella stessa "volontà di sapere" si
annida il rischio di ogni cronificazione. Per "conoscere" la realtà
occorre interrompere il viaggio, farla passare attraverso le maglie di un
sapere che in qualche modo la "inchioda" per poterla assumere come
oggetto di discorso. Il marxismo a suo tempo e la stessa scuola di Francoforte,
hanno messo bene in mostra che la realtà che scorre nei binari ciechi
di certe scienze non è altro che ideologia e cioé perpetuazione
di una visione distorta del reale. D'altra parte, la critica dell'ideologia
non di rado si è appoggiata, per smascherare la tendenza di ogni sapere
a fondarsi dogmaticamente, su una logica unidirezionale che voleva demistificare
gli inganni, scovare le interdizioni, denunciare le re-pressioni di certe
pratiche discorsive: riuscendo tuttavia raramen-te a descrivere e spiegare
i meccanismi tramite i quali queste pratiche si affermano, producono un sapere,
degli effetti di verità, un sistema di enunciati con tutte le conseguenze
pragmatiche e teoriche che questo comporta. Da questo punto di vista una ricerca
sul concetto di cronicità nelle malattie mentali, non può risolversi,
almeno da parte di chi ne mette in dubbio la validità, in una semplice
accusa a quel potere che servendosi del discorso psichiatrico, controlla,
isola, rinchiude la follia nel tentativo di "guarirla". Essa deve
essere in grado di ricostruire la rete dei presupposti culturali che la psichiatria
assume come pertinenti nel momento in cui, costruendo il suo malato-modello
e le tecniche per intervenire su di lui rende possibile un sapere della cronicità.
Interrogando la psichiatria lungo il versante della sua storia si può
notare come di fronte a un comportamento deviante che non muta, che persiste
e non si modifica essa non sceglie di analizzare il proprio "sguardo"
e i criteri e i parametri che esso utilizza per poter dire che qualcosa non
muta; essa sceglie la fissità di una definizione, di un nome: cronicità.
Da allora quel comportamento non parlerà al suo orecchio (ma sarebbe
più corretto dite al suo occhio) se non con la voce che essa le ha
dato, voce che con-fermerà l'esattezza della diagnosi e il pessimismo
della prognosi.
Il corpo del malato diviene dunque il teatro di una verità contenuta
negli schemi di un sapere quantificatore che riduce un comportamento deviante
nelle formule di un lessico biologico-evoluzionista che parla di fasi acute,
transitorie, cicliche ecc... Preso all'interno di questa morsa il folle non
ha che una alternativa: o "guarire" o diventare cronico sapendo
che, inserita nello spazio linguistico della medicina, la guarigione non sarà
altro che il corretto funzionamento di un organismo secondo il modello della
macchina.
Non si può, infine, non sottolineare che in psichiatria la diagnosi
di cronicità si caratterizza molto meno per ciò che consente
di sapere che per ciò che permette di fare: l'aspetto cognitivo è
schiacciato da quello pragmatico, il mandato della scienza da quello sociale2.
L'ospedale psichiatrico è il luogo in cui tale concetto dimostra la
sua forza operativa. Il manicomio, infatti, non "attende" (ad) altro
che (a) dare uno statuto definitivo a quel brulicare informe che è
la follia vista dalle sponde tranquille della normalità. L'Ospedale
e il cronico si strutturano dunque a loro reciproca immagine e somiglianza:
al loro interno non "succede niente" o meglio, ciò che succede
è niente; il loro tempo non si definisce a partire da un'azione o da
un processo, ma da una stasi e da una persistenza. Il concetto di "cronicità"
è stato, fin dalle origini della psichiatria, l'elemento fondante per
una definizione, la più oggettiva e ristretta possibile, della follia.
Verso la fine del '700 Vincenzo Chiarugi inizia il suo trattato sulla pazzia
scrivendo: "La voce toscana pazzia, che a quella di saviezza si contrappone
nel suo più stretto e vero senso significa: un delirio cronico e permanente".
La cronicità è dunque l'elemento pertinente per distinguere
"le semplici leggerezze di spirito" dalla follia. Per spiegare compiutamente
questa distinzione il Chiarugi fa sua la definizione di Girolamo Fracastoro,
vissuto nel 1300. "Insanus is erit, qui aetate ac tempore debito, et
per se, non momentaneam et fugacem, sed confinatam impotaentiam habeat operandi
circa intellectum". "Per se", vuol dire, appunto, per cause
legate esclusivamente al soggetto: il termine "confinatam" può
essere tradotto con "che gli è propria", "connaturata".
Seguiamo ancora il Chiarugi: "È solo la persistenza ad agire contro
il costume e la ragione che ce li fa riconoscere come pazzi...". "...
Così debbono essere escluse dal rango di pazzia, in quanto al tempo,
quelle forme di delirio degli ubriachi, dei sonnambuli e dei fissati che fuori
di queste circostanze non penserebbero o agirebbero come si vedono in certi
momenti pensare e agire...". Allo stesso modo: "Le febbri che danno
delirio non nascono da un cronico attacco diretto al cervello, e si dileguano
al cessare delle affezioni primarie". Inoltre: "Se si conoscono
le cagioni di un comportamento, esso apparirà ragionevole anche se
in superficie può sembrare pazzo". Quindi: "... gli appassionati...
possono essere considerati pazzi solo nel caso che sia una passione senza
intervalli continuata..". Non possiamo quindi parlare di fol-lia "...
in tutti quei casi in cui manca quel carattere di cronicismo che alla pazzia
è essenziale". Follia è dunque ciò che dura nel
tempo indefinitamente. Quando la persistenza di un comporta-mento deviante
è tale da far escludere che esso sia una reazione ad una causa esterna
(sia essa una febbre o una costrizione esi-stenziale) allora la causa non
può che essere ricercata in un'alterazione connaturata appunto al soggetto.
Siamo alla fine del '700: l'estendersi dei grandi agglomerati urbani, l'afflusso
dalle campagne, la nuova organizzazione del lavoro, i radicali mutamenti della
vita sociale impongono la necessità di una gestione organizzata della
follia. Prima confuso tra delinquenti, vagabondi e prostitute, ora degno di
attenzione medica, il folle viene liberato dalle catene. Nel corpo di questo
essere strano, la malattia circola alla ricerca di un "dove" organico,
dato che sofferenza e alterato comportamento non possono continuare a proporsi
indefinitamente come tali e devono essere compresi in un fenomeno "u-niversalmente"
oggettivabile. La psichiatria non si domanda molto sul perché e sul
come della follia e si concentra per sapere cosa il folle ha. In attesa di
un giudizio medico illuminante, agirà tuttavia un pregiudizio sociale,
una discriminazione che si rivolgerà soprattutto al comportamento deviante.
Il folle disturba, è imprevedibile, non lavora, ha bisogno di assistenza.
I perché rimasti senza risposta confluiscono in un dove istituzionale,
nell'ospedale psichiatrico. Ospedale che si organizza, e si struttura nel
solco dell'ideologia medica. Citiamo Foucault: "Strumento di osserva-zione,
l'ospedale - l'Autore si riferisce alla clinica medica - doveva essere il
luogo in cui tutte le malattie potevano essere classificate le une rispetto
le altre, confrontate, distinte, raggruppate in famiglie, ciascuna poteva
essere osservata nei caratteri specifici, seguita nella sua evoluzione, individuata
per ciò che poteva avere di essenziale o di accidentale. L'ospedale:
orto botanico del Male, erbario vivente dei malati... Ma per un altro verso
si presumeva che l'ospedale esercitasse un'azione diretta sulla malattia:
non solo permetteva di rivelare la propria verità agli occhi del medico,
ma le permetteva anche di produrla (il corsivo è nostro)... infine
nella sua verità fino a quel momento impedita e ostacolata"5.
Nel secolo XIX i manicomi contengono persone aventi in comune comportamenti
affini nella devianza psicologica e sociale. Nel manicomio avviene la trasformazione
del messaggio dell'alterato comportamento e della sofferenza nel sintomo della
malattia che si ripeterà, con l'aiuto dell'artificio asilare, agli
occhi dello psichiatra. Ciò darà conforma della fondatezza di
una ipote-si che diventa diagnosi, di un fatalismo naturalistico che diventa
prognosi e della apparente spontaneità di un decorso in realtà
fortemente condizionato dall'isolamento e dalla violenza. La psichiatria sembra
chiusa nella contemplazione di una malattia la cui evidenza è alimentata
dallo stesso sapere psichiatrico. Questo non può fare altro che osservare
il paziente attraverso il filtro delle norme prescrittive (cioé sociali)
le cui infrazioni verranno interpretare come trasgressione di norme costituite
(cioé biologiche). Due i binomi in questione: norma-devianza e salute-malattia.
L'osservazione psichiatrica convoglierà nel letto della clinica le
alterazioni del comportamento tenendo un occhio chiuso sulle contraddizioni
della realtà sociale, dato che l'altro deve rimanere ben aperto e vigile
sul sintomo (e sul microscopio). Il sintomo - in realtà il comportamento
deviante a livello sociale, interpersonale, intrapsichico - verrà considerato
esclusivamente come la materializzazione di una mancanza rispetto ad un ideale:
la salute. Così il binomio norma-devianza non compare sulla scena della
grande rappresentazione clinica degli asili; e il muro dell'ospedale nasconde
ciò che in realtà in esso avviene: il controllo e la custodia
di elementi che disturbano il vivere sociale. L'osservazione clinica si concentra
sul sintomo: su di esso si elabora un tipo di sapere (di natura classificatoria);
ma non si concede al sintomo alcun tipo di sapere. Così il malato entra
in un mondo in cui il futuro esiste già e sta scritto sui libri di
un altro che lo osserva.
Lo sguardo oggettivante della medicina priverà dunque il mon-do del
folle (il suo discorso) della possibilità di essere visto come creazione
umana (come un qualcosa che contenesse una "veri-tà" da ascoltare)
e tenterà di assimilarlo al mondo della natura.
A questo punto cosa può voler dire cronificazione? Potremmo dire che
si tratti della reificazione forzata e quantificante della qualità
di un comportamento - la follia - che si ripropone nel tempo. Ma la reificazione
può avvenire soltanto localizzando nello spazio e misurando nel tempo,
appunto, questa qualità; lo spazio - chiuso - è l'ospedale;
il tempo è scandito dalla osservazione medica. Ora, reificazione è
traduzione di qualità in quantità e trasformazione di comportamento
in sintomo; nel tentativo di riportare il sintomo all'organo malato. Cronificazione
è osservazione distorta e accurata della "cronicità"
di una particolare condizione umana - e sottolineiamo la contraddizione dei
termini cronicità e condizione umana nel tentativo di vederla naturalisticamente
come uno stato. In altre parole, la cronificazione è conseguenza di
un atteggiamento di chi osserva nei confronti di chi è osservato. È
chiaro che qualcosa non può diventare cronico per qualcun altro se
non attraverso la mediazione di un codice; ed è superfluo aggiungere
che le regole del sistema di significazione le stabilisce chi osserva. Ora
l'ideologia della cronificazione consiste nel presentare come motivato il
rapporto tra gli elementi associati dal codice quando invece esso è
arbitrario. L'attestazione della cronicità è sottesa dunque
all'elaborazione di una griglia ermeneutica tramite la quale si assumono come
pertinenti del comportamento di una persona alcuni tratti (sintomi) ai quali
si assegnano modalità di esistenza secondo una logica naturalistico-evoluzionistica:
il tratto cresce, permane, si stabilizza, si modifica, sparisce, ricorre,
ecc... La diagnosi di cronicità sancisce la definitiva esclusione del
malato di mente dal consorzio sociale, la sua pietrificazione in un mondo
senza storia nel quale il cambiamento viene visto come un incidente in una
struttura che non prevede modificazioni. Occorrerebbe interrogarsi, infine,
sul motivo per cui la maggior parte dei pazienti che diventano cronici nell'ospedale
psichiatrico provengono dalla grande area dell'emarginazione sociale. Non
si vogliono qui stabilire in modo meccanicistico nessi causali diretti fra
emarginazione e malattia. Certo è che un percorso molto breve separa
l'esclusione da un ciclo produttivo, dall'esclusione dalla vita sociale: gli
inabili al lavoro diventano inabili alla vita e la diagnosi di cronicità
consente di rimuovere una contraddizione propria del sistema sociale e di
tradurla in un'entità diagnostica, medica che dia uno statuto definitivo
a quell'improduttività che, alle soglie del sociale, rischia di rimanere
incontrollata. Privati dunque della possibilità, di elaborare un qualsiasi
progetto, abbandonati a se stessi, spesso soli e senza più legami famigliari,
questi pazienti finiranno la loro vita nell'ospedale psichiatrico con la qualifica
di malati mentali cronici: ci si chiede se la vera malattia cronica non si
trovi, fuori dal loro corpo, nella loro condizione sociale, prima e nella
struttura che li ospita, dopo. A un secolo di distanza da Chiarugi, Kraepelin
dividerà le malattie mentali in "curabili" (quelle dipendenti
da cause esterne) e "incurabili" quelle causate da fattori costituzionali
innati, endogeni. Secondo Kraepelin alcuni pazienti guariscono naturalmente
(i malati maniaco-depressivi), altri, altrettanto naturalmente, non guariscono
o peggiorano. Non solo l'esito della malattia incurabile - dementia praecox
- è precostituito, ma così pure il suo corso. Uno dei punti
caratteristici del sistema kraepeliniano è l'atteggiamento prognostico,
strettamente collegato alla diagnosi.
Si diagnostica la prognosi e, se la prognosi si dimostra da ultimo esatta, anche la diagnosi viene considerata esatta.
Giusta quindi l'osservazione di Foucault: il medico è convinto che
l'ospedale permetta alla malattia di rivelare la propria verità, di
produrla addirittura. Lo psichiatra sembra non essere sfiorato dal dubbio
di coltivare una serra dove le piante degenerano secondo un progetto che è,
almeno in parte, nella mente dello psichiatra stesso.
Sono passati cento anni dall'epoca di Chiarugi. Nella apparenza non è
cambiato molto. Nella sostanza è stato fatto un salto enorme. Chiarugi
dice: folle perché cronico. Kraepelin dice: cronico perché folle:
demente precoce.
Dopo Kraepelin, Eugen Bleuler, nel 1911, sostiene testualmente: "L'osservazione
che una malattia acuta può avere come conseguenza un danno permanente
dell'organo colpito non ha trovato in nessun campo un significato così
grande come in psichiatria. Le malattie "incurabili" riempiono da
sempre i nostri asili. Così col tempo è andata formulandosi
una delle domande più roventi della psichiatria: quali delle forme
acute confluiscono in stati finali incurabili e quali no?". Non si parla
di cronicità in modo ge-nerico, come a suo tempo Chiarugi. Si parla
di acuzie e di cronicità, in senso strettamente medico. I termini rieccheggiano
quelli di infiammazione, restitutio ad integrum, degenerazione, corrente-mente
usati in medicina. L'atteggiamento è pessimistico. Ancora Eugen Bleuler:
"Non ho mai dimesso uno schizofrenico nel quale io non potessi riscontrare
ancora chiari segni della malattia e sono ben pochi i casi in cui quei segni,
in virtù, debbono essere (accuratamente) cercati". Il concetto
di endogenità influenza non poco anche Freud. Siamo nel 1914, e si
tratta dell'Introduzione al Narcisismo: "... Si trattò di fare
collimare ciò che sapevamo della dementia-praecox ( Kraepelin) o della
schizofrenia (Bleuler) con le premesse della teoria della libido. I malati
di questo tipo, che ho proposto di definire parafrenici, presentano due tratti
caratteristici fondamentali: il delirio di grandezza e il distacco del loro
inte-resse da persone e cose del mondo esterno. In virtù di quest'ultimo
mutamento essi si sottraggono all'influsso della psicanalisi e diventano così
inaccessibili agli sforzi che facciamo per curarli".
Questa affermazione di Freud influenzerà per almeno trent'anni l'atteggiamento
degli psicanalisti nei confronti della possibilità di una psicoterapia
delle psicosi.
La psicanalisi, quindi, ai neurotici, l'ospedale psichiatrico agli psicotici.
Intanto l'unica cosa che si sa sulle psicosi endogene è che sono, appunto,
endogene. Manfred Bleuler: "Quando oggi si parla di disturbi mentali
"endogeni", si intende, prima di tutto, malattie mentali di origine
sconosciuta...". K. Jaspers, sullo stesso tema: "Il concetto di
endogenità, usato più spesso di quanto dovrebbe avvenire in
senso del tutto generico, non è altro che un velo che nasconde il nostro
non sapere". E tuttavia la psichiatria si comporta come se sapesse; o
come se fosse in at-tesa di sapere definitivamente. Ancora Jaspers, pur criticando
il materialismo manicheo della psichiatria, dirà: "La grande importanza
pratica della acquisizione di conoscenze dei meccanismi somatici che, con
tutta probabilità e soli permetteranno forse in futuro una influenza
terapeutica coronata da successo - una guarigione radicale...".
Al come se clinico, origine della prima cronificazione, farà seguito
il come se terapeutico, sommandosi come rinforzo al processo in precedenza
descritto. Non è nostra intenzione polemizzare qui sul fondamento dei
trattamenti somatici in psichiatria; né intendiamo discutere il loro
effetto sul sintomo. Ciò che ci interessa è il meccanismo di
rinforzo del processo di cronificazione attraverso il silenziamento sintomatologico.
Vogliamo dire che le tecniche di silenziamento sintomatologico - tutte le
terapie somatiche lo sono - fanno parte di un circuito che si autoalimenta,
nel senso che gli interventi "terapeutici" danno conferma di una
nosografia che è - certamente in gran parte - frutto di un processo
ambientale di cronificazione. I risultati degli interventi vengono riferiti
a pazienti acuti, subacuti, cronici, visti in seguito come guariti, migliorati,
invariati, attraverso accurate ricerche statistiche. E si tratta sempre, tuttavia,
di malattie di cui non sappiamo nulla e di condizionamenti ambientali negativi
di cui si riconosce sempre piú l'influenza; e di "terapie"
prive di fondamento scientifico ed il cui meccanismo di azione rimane nel
buio. Per concludere: abbiamo visto che la patogenesi e il decorso di malattie
delle quali ignoriamo l'origine vengono influenzati dall'atteggiamento di
chi diagnostica e cura; e dal messaggio che dalla psichiatria viene trasmesso
alla società. La diagnosi, la prognosi, le terapie hanno grande importanza
per quello che rappresentano nella mente degli operatori e per quello che
riflettono nella mente degli assistiti, della famiglie, delle persone che
si ammalano. La maggior parte degli interventi psichiatrici rafforza il "fondamento"
della psichiatria riproponendo la malattia mentale come un dato e non come
un prodotto. Tutto ciò favorisce e determina la cronificazione dei
pazienti. La prevenzione della cronificazione è dipendente dall'atteggiamento
critico dello psichiatra che ha coscienza della propria contraddizione: egli
sa, da un lato, che sa ben poco; e, dall'altro, che può fare a meno
di servirsi di interventi "terapeutici" pur nella coscienza del
precario fondamento degli interventi stessi. In altre parole: non abbiamo
bisogno di una psichiatria che faccia sempre meglio, ma di una psichiatria
che si faccia continuamente domande sul senso del fare.